Un giorno d’estate, un uomo, la compagna e la figlia arrivano alla loro casa di campagna per trascorrere un weekend. La figlia e la nuova moglie sembrano assenti in attesa dell’attenzione dell’uomo di casa. Lui è stanco della sua routine quotidiana sul posto di lavoro e non sa come trovare la forza per continuare a vivere. Nonostante si amino, il loro rapporto è teso e sull’orlo del collasso. Bartas diegna ancora una volta una storia al limite dello stilizzato. Questa volta sono le parole a fare da contorno alle immagini, parole piene di sensi metafisici, mai attuali, simbolo e sintomo di una distanza che si fa eterea. Come contrappunto a questa famiglia c’è la popolazione autoctona, dispersa tra vodka, pesca e fucili da caccia. Bartas è sempre in ricerca di un’umanità che spesso fa fatica ad emergere, i suoi personaggi respirano incapsulati nella priorità delle loro stesse anime, ma mai ne sembrano protagonisti.
Come nella maggior parte dei film di Bartas, significati precisi sono difficili da definire, la casa stessa simboleggia lo spazio del luogo/anima in cui ogni gesto ed ogni parola assume il ruolo della codifica, in cui nessuno può essere il proprio osservatore/ascoltatore costruendo una serie di ellissi continue tra realtà ed immaginazione. Il film gioca e respira nella sua continua indefinizione, di spazi e di personaggi, di suoni e di anime. Niente e nessuno ha un nome, gli spazi sono archetipi della durata e i personaggi paiono continui traghettatori dell’esperienza, capaci di scivolare nella selva simbolica delle immagini che Bartas erige, quasi se anche lui stesso cercasse in fondo di capire qualcosa. E’ lui a muoversi dentro all’inquadratura e nella storia, mentre sua figlia è la protagonista adolescente ed addirittura compare la sua ultima compagana (la compianta Golubeva, suicidatasi nel 2011), nella breve sequenza di apertura della pellicola.
Lo strappo umano così è enorme, si percepisce subito che tutto ciò per Bartas stesso è molto più di un film, ha l’apparenza del labirinto astratto della condensazione di emozioni ed atti e nel continuo tentativo di comprensione della propria realtà. Forse anche per questo l’epicità dell’impianto linguistico e fotografico di Bartas pare lasciar spazio ad un indefinito apparato intimo a continue ed astratte derive di montaggio legate agli occhi ed al respiro, nella espiazione stessa del paesaggio vissuto attraverso inquadrature definite come finestre dell’anima. Il finale riapre un altro squarcio di disarmante provvissorietà e di leggerissima speranza, liminale e distante, quasi irriconoscibile. Film complesso, che desidera molta attenzione, nelle finestre di immobilità che la storia e la regia rigorosa dell’Autore desiderano, contrappuntate dai paesaggi lituani immobili ma eternamente cangianti in cui le anime vagano aspettando l’ultima goccia di splendore, il primo frammento di una vita (nuova). Da aspettare e (ri)cercare.
Erik Negro