Ho amato – all’inizio mi era “solo” piaciuto, poi è lievitato nel cuore – Dheepan, il film con cui Jacques Audiard ha portato a casa la sessantottesima Palma d’Oro. Certo, ragionando con il senno di poi c’erano film nettamente migliori di questo, a partire dai giganti asiatici Hou Hsiao-Hsien e Jiǎ Zhāngkē fino allo splendido Carol di Todd Haynes, ma sarebbe ingiusto se l’astio verso un premio forse eccessivo portasse a sottovalutare un buon film.
Incipit folgorante e cinematograficamente magistrale per l’asciuttezza del racconto: in Sri Lanka, un uomo, Dheepan (Antonythasan Jesuthasan, performance superba, è stato capace di giustapporre momenti di durezza e tenerezza, esaltazione e meditazione, sfogo nevrotico e pulsioni sessuali, gesti quotidiani e azioni mortifere, il tutto con un corpo macilento ma agile, come quello coriaceo dell’elefante indiano che, come lampi di una coscienza ancestrale, Audiard gli alterna al montaggio), vede ardere su una pira i corpi dei caduti della guerra civile.
Fugge, va a Parigi, in un quartiere che ha qualcosa – e questo “qualcosa” non è solo architettonico, ma anche cromatico, nei toni plumbei di un cielo che terso non può essere mai e degli intonaci inevitabilmente scrostati o istoriati di souvenir d’incendi – delle vele di Scampia. E lo stesso sottobosco. Gli stessi abitanti che stanno un po’ al di qua e un po’ al di là della legge. Ma non è solo, in questa fuga. Estinta la sua famiglia vera, deve emigrare con una ragazza di ventisei anni (Kalieaswari Srinivasan, sofferente ma profondamente dignitoso ago di una delicata bilancia, interprete raffinata di una donna fragile ma, nel momento giusto, coraggiosissima) e una bambina di nove anni. Con buona approssimazione, possono somigliare alle fototessere di tre persone che hanno perso la vita, ma non il passaporto. Acquisita un’identità di facciata, possono partire.
Dheepan è un Audiard che sulla Croisette si è un po’ ritenuto un passo indietro, rispetto all’ottimo De ruille et d’os. Per noi, invece, è addirittura un ritorno alle febbrili pulsioni filmiche del Profeta. Il punto di contatto principale è l’integrazione e il racconto dell’integrazione, tre personaggi per analizzare tre contesti, sistema narrativo dal quale Audiard si era preso una pausa col film precedente, più psicologico, limitato alle delicate dinamiche di una coppia (se non addirittura alle dinamiche interne del solo personaggio della Cotillard, in quel caso). Qui lo sguardo si allarga, intervengono più soggetti, e Audiard – che ha la sua cifra nell’alternanza di momenti di pedinamento dardenniano a exploit visivi di elevazione quasi concettuale – si prende più libertà, visive e narrative. Il finale, esplosivo, girato, fotografato e montato magistralmente, con le cadenze di un thriller, arriva come un urlo di liberazione del film (ma anche come urlo di liberazione dello stesso Dheepan) dopo le tensioni accumulate precedentemente. Solo l’epilogo desta qualche sospetto, estetico – per la verità – più che etico. Ma non cancella tutto il resto.
Elio Di Pace