Risulta molto strano parlare di Lav Diaz a quattro mani dopo più di un mese di viaggio, due o tre Festival ravvicinati alle spalle, oltre un centinaio di film – in buona parte trascurabili – ancora negli occhi. E proprio per questo bisognerebbe partire dalla sua visione tormentata e tormentosa in un Berlinale Palast che abbiamo osservato finalmente non svuotarsi nello scorrere della durata, di poco oltre le otto ore, della sua ultima opera. Una visione resa problematica dalle scelte opinabili della Berlinale, che oltre a programmare il film negli ultimi giorni di Festival, quando gli occhi sono stanchi e le poltroncine sembrano ormai alla stregua di strumenti di tortura per le schiene, ha optato per un’ora di pausa a metà proiezione che ha irrimediabilmente corrotto il flusso narrativo ed emotivo del film. Il cinema di Lav Diaz è sempre stato un dare e avere, chiede fiducia e pazienza per ripagarti con lunghi istanti di un’intensità ancestrale e nuovissima, un’umanità che ti scorre sotto pelle, una bellezza che, dopo il tempo necessario per entrare nel film, fa dei suoi tempi dilatati il necessario veicolo per regalare allo spettatore momenti di un lirismo atavico che non andranno mai più via dal cuore e che, volta dopo volta, ci hanno cambiato la vita. Il cinema di Lav Diaz è un fiume, uno scorrere placido e al contempo vorticoso, un qualcosa nel quale immergersi per sperare, una volta superato il quasi inevitabile respingimento iniziale, che non finisca mai. Allo stesso modo, tornano alla mente le giornate veneziane in cui, con i tuoi teneri e scostanti sedici anni, dormivi sulle panchine del Lido vampirizzato e continuamente svegliato dalle zanzare per comprare il biglietto di Death in the Land of Encantos. Ecco, il biglietto c’era anche oggi, ma forse è l’unica similitudine tra le giornate alla Mostra e questo diciotto febbraio, che oramai è già diciannove. Quel Lav Diaz forse ce lo dobbiamo dimenticare, non c’è più, e molto probabilmente non tornerà. In mezzo c’è stato Norte a Cannes, c’è stata la vittoria del Pardo a Locarno con From What is Before, c’è stata una crescita esponenziale di popolarità e di budget. Lav Diaz è diventato, fra il pubblico festivaliero, un regista quasi di moda, e l’idea che il suo cinema si sia modificato e narrativizzato non tanto per sincera evoluzione ma per essere più competitivo nei concorsi si fa largo nelle nostre menti con l’amarezza di un rimpianto, grande o piccolo, con il quale probabilmente d’ora in poi dovremo convivere.
Quella che abbiamo fatto è una premessa necessaria e per molti versi per noi dolorosa, perché anche A Lullaby to the Sorrowful Mistery è ovviamente un film eccellente, nuovo parto creativo di una delle figure più importanti del cinema degli ultimi vent’anni, assoluta perla di un concorso con ben poco d’altro e già fra i film imperdibili dell’anno, nella più profonda speranza che gli venga tributato un Orso d’oro che sarebbe meritatissimo. Stavolta però, a differenza che in passato, la parola ‘capolavoro’ che speravamo di poter nuovamente sfoderare senza alcuna remora rimane strozzata in gola, mentre qualche piccolo dubbio si infila quasi a tradimento fra nostre le solite lacrime finali per dirci che qualcosa, a conti fatti, non torna. La mancanza di Bonificio, figura fondamentale e pioniere della rivoluzione indipendentista, trova infatti il suo spazio solo nelle ultime due ore, quando il film mirabilmente si apre, respira, attraversa diagonalmente la sua stessa costruzione cercando di ridarle giustizia, riduce drasticamente le parti dialogate per tornare al puro lirismo dell’immagine, e così il fiato torna a mancare come ai vecchi tempi. Rimangono però le sei ore abbondanti precedenti, procedimento forse necessario e strutturato di composizione così stratificata del quadro, ma che appaiono eternamente trattenute, costruite, sovraesposte alla parola, o semplicemente mancanti di quel lirismo trascinante e sconvolgente che, a nostro avviso, non sono contraddistingueva il suo cinema, ma lo innalzava a una delle forme espressive più estreme e profonde dell’apertura di secolo. I salotti borghesi dei conquistadores, per quanto necessari al racconto, sono evidentemente meno nelle corde di Lav rispetto alla foresta e al Popolo che vaga scalzo in mezzo alla natura alla ricerca di se stesso. Fino a farci rendere conto che quella sincerità ancestrale e quella purezza umana che ci aspettavamo copiose arrivano in realtà solo a intermittenza, regalando momenti sublimi ma anche lunghi istanti di rimpianti, di mancanza, di dubbio.
Le immagini di Lav Diaz esplodevano in quel digitale tra il beta e il mini dv, così trasandato ma struttura stretta di un (nuovo) realismo rappresentativo provvisorio e straniante: una confusione continua di bianchi e di neri che creavano una post-analogicità estetica, incapace di essere definita nella sua traumatica semplicità espressiva. Le sue inquadrature disegnavano il tempo nel suo farsi e la Storia, vista rigorosamente attraverso noi che la facciamo, nel suo divenire; le sue sequenze si scolpivano in monoliti di umanità eternamente in attesa di essere colta, in piani sterminati fermi immobili e al contempo in continuo movimento, ad aspettare il moto di un’azione sempre più fragile e precaria dove il paesaggio e la natura prendono il sopravvento cancellando la realtà del momento in una liquida deriva di sensi tra memorie, sogni e visioni. Il battito del cuore sussultava con quello delle ciglia, ogni respiro era trattenuto fino al prossimo taglio, fino al prossimo stacco, fino al prossimo quadro. I suoi protagonisti vagavano nella loro costante indefinitezza, nella lotta continua contro il destino a caccia di un piccolo raggio di luce che potesse, almeno per un attimo, renderli partecipi della vita di una nazione che ha bisogno (anche attraverso il cinema) di ri-scriversi una storia. E rimane in effetti questo il tentativo che Lav ossessivamente mette in scena, quello di dare un passato plausibile al suo Paese, cercando però di farlo uscire dall’anonimato nel quale è tragicamente relegato anche attraverso opere che tendono ad abbracciare un pubblico più ampio, e in cui lui stesso mostra maggiore attenzione costruttiva, fotografica, narrativa, linguistica. Ma che inevitabilmente, in una narrazione che a tratti gli sfugge di mano, in una profusione di dialoghi che quasi distraggono dalla potenza dell’immagine e in una cura fotografica e di messa in scena che muove la Alexa su così tanti carrelli, perde parte quella spontaneità, di quella direzione espressiva e di quella forza travolgente che una decina d’anni fa ci faceva gridare al miracolo. Il problema fondamentale è che durante la visione di A Lullaby to the Sorrowful Mistery, tornano inevitabilmente alla mente Evolution of a Filipino Family, Death in the Land of Encantos, Melancholia, Century of Birthing, Florentina Hubaldo, come fotogrammi che si sovrappongono a quelli sullo schermo, piccoli rimpianti nei confronti di un Autore ancora sommo, ma oramai meno libero -durate a parte- nell’esprimere la propria anima senza sovrastrutture né imposizioni di alcun tipo.
A Lullaby to the Sorrowful Mistery, rispetto al passato, è un film molto più storicizzato che perde parte dell’atemporalità del cinema di Lav, è un film nettamente più narrativo che soffre qua e là di qualche problema nella gestione della narrazione, è un film molto più costruito e attento alla messa in scena, evoluzione nello stile del regista ma anche perdita (escludendo le ultime due sublimi ore e qualche sprazzo precedente) di parte della sua forza emozionale dirompente. Molte figure entrano e scompaiono nella narrazione, tratteggiando sottotrame non sempre funzionali e a tratti eccessive; il meccanismo pare a volte incepparsi, il flusso incrinarsi in un ristagnamento linguistico estremamente verboso e non di rado didascalico. Sono forse passate troppe primavere e troppi film da quella Venezia, e sicuramente urge quanto prima una seconda visione, ma all’apparenza (che troppo spesso inganna) Lav é diventato grande, un uomo che sa cosa vuole dal suo cinema, e probabilmente anche dalla sovrastruttura che a questo cinema è stata imposta. Scende a patti e lo sa benissimo, continuando a regalarci tempi necessariamente dilatati, durate decisamente fuori mercato e sprazzi di inarrivabile poesia, ma senza riuscire a immergerci completamente e di nuovo in quei giorni in cui, dopo una decina di ore in apnea e con il cuore in gola, lo avvicinavi e lo abbracciavi senza nemmeno l’idea di proferire parola, lo sentivi tuo, come un amico e come un parente. Forse è ciò che capita quando si hanno aspettative troppo alte, forse è ciò che capita quando si ama troppo un Autore con il quale si è cresciuti, e del resto A Lullaby to the Sorrowful Mistery è un film eccezionale, stordente, oggettivamente bellissimo, che non vogliamo in alcun modo attaccare né mettere in discussione. Ma non riusciamo a non coglierlo come un piccolo passo indietro e un piccolo tradimento nei confronti della poetica della quale ci eravamo, e saremo per tutta la vita, innamorati.
Lav Diaz, nel suo film più storico, torna all’inizio della Rivoluzione filippina, quel 1896 nel quale l’eroico scrittore José Rizal venne giustiziato e divenne simbolo e guida della nazione nell’affrancarsi dal dominio spagnolo. Quello di Lav è un cinema di Storia e di fantasmi, un cinema che da sempre rimette in scena il passato alla ricerca di dignità, ma soprattutto un cinema di gente, un cinema corale, un cinema nel quale la Storia è vista rigorosamente attraverso il Popolo che la subisce, la vive e la cambia. Alla Spagna, come testimoniato anche dal resto della filmografia del regista filippino, succederanno ben presto il Giappone, poi gli Stati Uniti, infine la sanguinaria dittatura di Marcos, dolori che si alternano per uno dei Paesi storicamente più martoriati di sempre, un Paese per il quale Lav Diaz cerca e trova da sempre una nuova Storia, una nuova pace, una nuova speranza. E anche A Lullaby to the Sorrowful Mistery, al di là di tutto, riesce nell’impresa, confermando quanto sia eccezionale il cinema di Lav Diaz nei viaggi di accorate donne lacrimate alla ricerca di Andrés Bonifacio y de Castro, padre della Rivoluzione già morto ma al contempo vivo in eterno, nei tradimenti e nei pentimenti tardivi una volta che il massacro degli insorti è già stato perpetrato, nella figura morente di Simoun ferito e trasportato nella sua barella in vimini, nella straziante Salve Regina intonata dalla “Vergine Maria” di una setta religiosa che vorrebbe rinunciare alla sua opprimente e imposta santità ma la cui fuga durerà ben poco. Fino al puro sublime che si raggiunge nell’ultima parte, in cui tutto il Lav che abbiamo sempre amato finalmente torna per cristallizzarsi in una zattera funerea alla deriva e nell’anima di Simoun ormai libera e che può finalmente rialzarsi dal letto di morte, come le Filippine in lotta per esistere e come i cadaveri che rialzavano la testa nel finale di From What is Before.
Quello di Lav Diaz è un cinema che che non può prescindere dal potere salvifico delle arti, dalla musica che risuona dalle chitarre spagnole come una serenata o come la ninna nanna del titolo, dal cinema stesso che viene rimesso in scena e che, come con i treni dei fratelli Lumiére, illude, condiziona, emoziona, spaventa. È un cinema epico, un cinema corale, un cinema che scorre inarrestabile come un fiume, un cinema nel quale lo spettatore si ritrova catapultato in un mondo in bianco e nero dal quale riconsiderare la propria visione del mondo. È un cinema che, in una stupida lotta di etichette, parole al vento in una spaccatura insensata fra grande, grandissimo film e capolavoro, sta forse dividendo anche chi lo ha sempre amato. Quando in tutto questo c’è semplicemente un uomo con le sue modalità di racconto originali, personalissime e uniche, quelle che conosciamo e che amiamo da anni, ma anche quelle che stavolta si presentano leggermente differenti e forse un po’ troppo altalentanti. Non sappiamo quanto senso possa avere parlare di questo film bellissimo, né del perché ci abbia lasciato un po’ d’amaro in bocca: un giorno eravamo nella grotta e abbiamo visto il miracolo della sua immagine, riflessa e impressa continuamente nei nostri occhi marchiati a fuoco dalla rivelazione più assoluta, mentre oggi siamo già qui a scriverne, a razionalizzare, a destrutturare, a catalogare, ad analizzare e a pensare. Lav andrebbe semplicemente visto e vissuto, con il cuore e con la pancia ben prima che con la testa e con la penna. Ma laddove c’erano l’estasi più pura e il silenzio, ora c’è la parola, c’è la ragione, c’è la consapevolezza che Lav Diaz ha fatto di (ancor) meglio. Risulta molto strano tutto ciò, l’ultima notte di un viaggio, riavvolgere il nastro fino ai tuoi sedici anni, quelli che non tornano e che ti mancano, quelli che quest’uomo ha segnato inesorabilmente. E quelli che, pur di fronte a un film oggettivamente enorme, alla fin fine rivorresti indietro più puri e spontanei, con gli interessi di un’Evoluzione, di un Incanto, di una Malinconia. E ti senti quasi in colpa per questo.
Erik Negro, Marco Romagna