Sarajevo è da oltre un secolo un asfissiante teatro di morti. Prima quella nel 1914 di Francesco Ferdinando d’Asburgo per mano del giovane Gavrilo Princip, celeberrimo quanto pretestuoso casus belli della Prima Guerra Mondiale, poi quelle tragiche e innumerevoli negli anni Novanta sotto la criminosa pulizia etnica di Slobodan Milošević. Ma anche e soprattutto, senso ultimo di Mort à Sarajevo, quelle della stessa Europa, che nella capitale bosniaca è morta più volte. Un’Europa uccisa dalle guerre, uccisa dall’intolleranza, uccisa dagli stupri etnici, uccisa dai cecchini contro i civili, uccisa dalle truppe militari e paramilitari durante il lungo assedio della città. E forse ancora oggi uccisa dalle incomprensioni e dai campanilismi. Sarajevo, città multietnica nella quale i musulmani convivono da sempre con gli ortodossi, eppure storicamente schiacciata da una geografia che la vede in mezzo ai conflitti forse mai sanati fra gli integralisti serbi contrapposti a quelli croati, entrambi armati di mentalità destrorsa, patriottismo guerrafondaio e troppo odio in fondo agli occhi. La Bosnia Erzegovina è una zona del mondo delicata, complessa, difficile, forse ancora esplosiva, la terra più colpita dalle guerre jugoslave e con troppe ferite ancora aperte, frazionata e spartita in due macroterritori e tre minoranze etniche, da una parte la Federazione Croato-Musulmana quasi contrapposta alla Repubblica Serba di Bosnia e Herzegovina, dall’altra le insanabili differenze religiose e culturali fra bosgnacchi, serbi e croati. Quasi come se la guerra di Bosnia non fosse mai finita, quasi come se il criminale di guerra Ratko Mladić con Arkan e il suo codazzo di tigri fossero ancora lì ad assediarli, ucciderli, stuprarne le donne in base alla religione e al ceppo di appartenenza: il ricordo è ancora troppo vivo, brucia sulla pelle, scorre nelle vene, e a volte le fa ribollire.
Mort à Sarajevo, la nuova fatica di Danis Tanović presentata in concorso alla sessantaseiesima Berlinale, prende le mosse dalla pièce teatrale Hotel Europa, monologo a firma Bernard Henri-Lévy, per declinare nella più pura finzione cinematografica un secolo di storia e chiedersi che cosa possa salvare dalla rovina e dalla confusione un Vecchio Continente ormai debole, ancora drammaticamente in altalena fra i conflitti etnici, la violenza, il razzismo e l’altrettanto colpevole ipocrisia nel fare finta di nulla. È il 28 giugno 2014, centenario dell’attentato di Sarajevo. In un albergo della capitale, gestito dal manager Omer, sono presenti diplomatici internazionali, giornalisti, ospiti di un programma televisivo fra i quali un ‘nuovo’ Gavrilo Princip ossessionato dal proprio nome e dalla politica militante, poliziotti che si occupano del servizio d’ordine, ma anche lavoratori che non percepiscono da troppo tempo lo stipendio. Nel bel mezzo del bailamme di un’organizzazione che dovrebbe essere perfetta come le Olimpiadi ’84, Omer è ormai un uomo in rovina, fra creditori oltre il limite del mafioso alle calcagna e dipendenti che rivendicano i propri diritti minacciando scioperi proprio nel momento in cui, grazie all’evento ospitato, l’albergo si è nuovamente riempito dopo una lunga magra. E non è certo un caso che Mort à Sarajevo, come del resto lo spettacolo teatrale da cui è tratto, sia ambientato in un hotel: un luogo che è un non-luogo per antonomasia, terra di passaggio ma anche occasione di riflessione, moltitudine sociale e paradossale solitudine in mezzo a tanta gente in viaggio, istanti di vita che scorrono e poi volano via come la Storia, sgusciando come i lunghi e articolati splendidi pianisequenza in steadycam sui quali il regista bosniaco installa i dialoghi e l’impianto narrativo. Un approccio visivo che spinge sull’impostazione teatrale fatta di unità aristoteliche di luogo, tempo e azione: può cambiare la stanza, dalla suite presidenziale alla lavanderia oltre il garage, ma è sempre l’hotel ad essere centrale, porto di mille personalità e allegoria di un’Europa che abbraccia e respinge. Un’Europa al verde come il direttore dell’hotel, un’Europa violenta come gli scagnozzi del suo strozzino.
Mort à Sarajevo cristallizza la sua forte coscienza e verve politica in una sequenza in particolare. Ci troviamo sul tetto dell’albergo, dove si sta girando lo special televisivo per il centenario dell’attentato che comprenderà interviste a storici, personaggi politici internazionali e attivisti. Una domanda fondamentale si fa strada nella trasmissione: Gavrilo Princip è stato un eroe o un terrorista? È la ricerca di una risposta univoca impossibile, necessariamente filtrata dalla propria appartenenza, dalle proprie convinzioni, dal proprio vissuto personale, dalla propria visione della Storia. Fino a sfociare nel litigio in diretta fra la giornalista che conduce l’intervista e Gavrilo Princip, cresciuto nel mito familiare del suo celebre omonimo. Si parte dall’attentato del 1914 per finire a parlare di Mladić e di Milošević, mentre emergono i corsi e ricorsi storici, l’impossibilità di punti di contatto fra un’impostazione e l’altra, la complessità della Storia, i contrasti etnici che possono esplodere ancora oggi nel salotto di casa. La trasmissione diventa un’arena nella quale speranza e incubo danzano sul burrone della violenza, primo passo verso il baratro della morte. In un albergo-Europa, in una società-Europa, con una polizia-Europa che anziché proteggerci davanti alla porta preferisce installare microcamere e spiarci dai monitor, sempre ammesso che non ci spari fra la pressione che non riesce a gestire e la riga di cocaina che ancora fa capolino dall’orlo delle narici. Del resto, tutta la narrazione di Mort à Sarajevo è basata sull’equivoco, consapevole metafora degli equivoci che portano il mondo all’instabilità, degli equivoci che portano alle guerre, degli equivoci che portano all’odio razziale. È un equivoco il licenziamento della tuttofare Lamija per l’attivismo sindacale della madre che nemmeno condivide; è un equivoco la spirale (auto)distruttiva di Omer, forse la stessa della società zoppa e cieca nella quale viviamo; è un equivoco la nuova morte a Sarajevo, con cui si chiude il cerchio: Gavrilo Princip, da primo omicida, si ritrova ora a giacere sul pavimento come ultima vittima di una ruota infernale.
Nel discorso che il diplomatico francese prepara faticosamente davanti allo specchio, ignaro dell’impianto a circuito chiuso, Tanović racchiude sia la faciloneria retorica della politica, più attenta alla scelta delle parole che non ai fatti, sia la necessità di riscoprire la cultura e i valori come unica possibile ancora di salvezza per il Continente. Inseguire la cultura, del resto, porta alla conoscenza, porta all’accettazione, porta a un umanesimo che si auspica possa ritornare umanità. Con Mort à Sarajevo, Danis Tanović riesce finalmente a smarcarsi dal fantasma di Emir Kusturica che aveva così pesantemente condizionato la sua filmografia precedente, si stacca da quel tipo di (validissimo ma già visto e rivisto) immaginario melodrammatico fatto di musiche tzigane, rutilanti altalene e vestitini a fiori per cercare una propria via, forse non ancora originalissima, ma decisamente libera dalla derivazione pedissequa alla quale il regista ci aveva abituato e che era sempre stata il suo più grande ostacolo verso il grande film. Ed è curioso, a proposito di associazioni, notare come il lussuoso Hotel Europa di Mort à Sarajevo arrivi a soli pochi mesi da altri due alberghi, in primo luogo quello galleggiante di Flotel Europa nel quale Vladimir Tomic ha ricordato la sua infanzia da rifugiato serbo in Danimarca, ma ci piace mettere sul piatto anche quello che, nel capitale 11 Minut, ha ospitato l’apocalisse secondo Jerzy Skolimowski. Si tratta di film forse imparagonabili per idee, tematica, realizzazione e probabilmente anche effettiva valenza, che però non solo nell’hotel hanno un punto in comune: anche Mort à Sarajevo, infatti, ricerca l’immagine che ci sopravviverà, non più un pixel mancante ma uno schermo senza spettatori, monitor su altre stanze ormai vuote inquadrate dalle telecamere nascoste. Quello di Danis Tanović, quindi, è un sorprendentemente riuscito film allegorico, parabola per molto versi altmaniana di un’Europa morta ammazzata più volte a Sarajevo, ma finora sempre risorta. È un film di politica e speranza, di traumi e di violenza, di minoranze etniche e di insormontabili incomprensioni. Che soffre forse di qualche leggera forzatura narrativa, specialmente nella parte relativa alle rappresentanze sindacali, ma si rivela al contempo estremamente acuto, armato di grande lucidità politica e sociale, capace di rimasticare cent’anni di Storia e di proiettarli come paradigma del presente, ben conscio della complessità e degli equivoci e rimanendo sempre a distanza di sicurezza dal rischio di diventare didascalico. Un film, insomma, che non possiamo fare a meno di amare, scarto formale nella filmografia di Danis Tanović e ad oggi, in attesa quasi del solo Lav Diaz con il suo nuovo A Lullaby to the Sorrowful Mistery, di gran lunga il miglior film selezionato nel concorso non certo irresistibile di questa Berlinale. Sarajevo è da oltre un secolo un asfissiante teatro di morti. Da Gavrilo Princip a Gavrilo Princip, la Storia passa da qui. Basta avere voglia di coglierla.
Marco Romagna