Iñàrritu ha cominciato la propria carriera registica con una Trilogia della Morte in collaborazione con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, e tra l’esordio illuminante e celebrato in tutto il mondo Amores perros (2000) e i due ben più deboli seguiti concettuali 21 grammi (2003) e Babel (2006), prodotti negli Stati Uniti con attori statunitensi, ha dimostrato al mondo di essere uno degli autori di drammi d’autore più commercializzabili a livello mondiale. Ed è quello che il messicano vorrebbe rappresentare: una commistione facilmente apprezzabile in maniera universale di cinema drammatico per tutti e cinema d’autore, cinema del popolo e cinema indipendente, più o meno come il Soderbergh della serie TV The Knick (2014-?), ma in maniera (drammaticamente) meno indipendente, privo di un reale sguardo, teso ben più alla spettacolarizzazione che ad avere davvero qualcosa da esprimere, non di rado vacuo e ammiccante oltre il fastidioso. Babel, ad esempio, con il suo frapporsi e incastrarsi frammentato di storie in varie lingue, esemplifica un senso di incomunicabilità sospeso tra l’enfasi tragica da polpettone delle sceneggiature di Arriaga e una sorta di visione antonioniana, freddamente calcolata, dei rapporti umani. In tutto ciò, il posarsi del regista sui corpi con la macchina da presa, e soprattutto sui volti, è sempre stato più interessante delle sceneggiature su cui lavorava, e in questa ipotetica Trilogia l’aspetto più interessante è proprio l’approccio tecnico – che, purtroppo, non soddisfaceva mai in maniera completa.
Con Biutiful (2010), Iñàrritu ha iniziato quella che potrebbe essere considerata una seconda Trilogia: una trilogia su uomini in difficoltà, in bilico tra problematiche opposte, in una lotta per la sopravvivenza. Usando uno stile diverso, focalizzandosi sulla tragedia umana più in maniera individuale che in maniera corale, il regista ha firmato di seguito tre film più difficilmente classificabili dei precedenti, e tutti e tre ambigui nel rapporto tra i propri pro e i propri contro. Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza) (2014) è l’esempio più particolare del gioco: usando piani sequenza spericolati con un uso magnifico della fotografia in interni (da parte del sempre soddisfacente Emmanuel Lubezki), il film, che valse all’autore 3 premi Oscar per miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura originale, usava un approccio alla regia e al montaggio più legato al cinema di nicchia e al cinema indipendente che alle grandi produzioni e sfruttava questi manierismi come critica al nevrotismo dilagante dello show business, all’individualismo narcisistico del ruolo stesso degli attori, alla multimedialità del dolore nel 21esimo secolo (e anche, perché no, per strizzare l’occhio alla critica disposta a cascarci, dimostrandosi a sua volta, paradossalmente, narciso e nevrotico). In un certo senso, questa descrizione isterica di un mondo suicida e privo di speranze finiva per funzionare a metà, tra stacchi di montaggio di scarso funzionamento e momenti in cui prevaleva una visione troppo pretenziosa del rapporto tra il cinema di Iñàrritu e il cinema supereroistico, quasi volendo dire “questa è arte, quella no”, “io sono un autore, il resto è spazzatura”, uccidendo qualsiasi sorta di modestia e umiltà dell’autore di fronte all’ambizione smoderata di un folle che non capisce, forse, che tutti i film del cinema hollywoodiano per definizione appartengono allo stesso mondo, e che non basta citare Carver e Shakespeare per uscire da quella melma – e che melma può essere, come spesso è, fabbrica di sogni, macchina di meraviglia.
E Redivivo – The revenant, l’ultima fatica del regista messicano, non è meno ambigua come operazione. Usando prevalentemente luci naturali, questo western biografico, che racconta la storia di Hugh Glass, sopravvissuto all’attacco di un orso e all’abbandono nel gelo da parte dei propri compagni di avventura e in viaggio, malandato, per vendicarsi, è una storia di sopravvivenza che fa combattere in continuazione vari paradossi: il forte e crudo realismo del dolore del protagonista, un Leonardo Di Caprio che urla, sbava, piange e sanguina, e l’incredibile irrealismo delle proprie disavventure, tra schiene graffiate e cadute improbabili; il materialismo fisico delle scene di violenza e battaglia, che sono impressionanti per immedesimazione visiva (fotografia sempre del grande Lubezki) e lo spiritualismo dei siparietti onirici, eccessivamente malickiani a tratti, con uso opinabile delle visioni fantasmiche. Ma soprattutto, il paradosso più vergognoso sta nella vera e propria essenza di Hugh Glass, questo protagonista sofferente, che è chiaramente un supereroe: sopravvivendo ad ogni sorta di attacco mortale, al freddo, alla febbre, capace di nuotare sott’acqua a lungo con la gola squarciata, il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio non è forse quel tipo di entità anti-umana che Birdman criticava? Pur conferendogli umanità con la storia della sua famiglia o con un processo interiore e spirituale che, in fondo, non fa altro che avvicinarlo sempre di più ad una macchietta profondamente cristologica, la sua lotta contro la natura e la sua necessità di vendicarsi non sono vicine alle lotte tra il bene e il male che si verificano nelle storie più gettonate nei blockbuster fantascientifici che Iñàrritu osa non considerare cinema? Leonardo Di Caprio che muore e poi diventa redivivo, torna nel luogo da dove proveniva per vendicarsi contro Tom Hardy e va alla sua ricerca per ucciderlo: compreso l’attore antagonista, sembra quasi di trovarsi di fronte ad un magnifico, maestoso e soprattutto mistico remake del terzo Batman nolaniano, Il cavaliere oscuro – Il ritorno (2012). E il problema sta anche nell’incredibile comparto tecnico: movimenti di macchina fluidissimi, lenti sempre sporche (di acqua, di neve, nel finale pure di sangue), sequenze affascinanti e avvincenti, quasi tangibili, ma tutto questo sempre nella direzione di un nulla, di una rappresentazione prolissa di un conflitto vacuo, sempre più flebile, sempre più lontano, sempre più vicino ad una ricerca disperata di attenzioni. Vediamo un palco dal quale regista, direttore della fotografia e attori dimostrano la loro bravura tecnica, senza però reali coinvolgimenti emotivi, senza un’idea che sappia tenere le fila dei soliloqui, senza una reale poetica da parte del cineasta messicano.
Quando il film si conclude, con l’inevitabile, sanguinosa e avvincente scena di lotta tra Di Caprio e Hardy (che, nel caso non si fosse capito, interpreta un personaggio nichilista ben più interessante del protagonista, che soffre in maniera sempre più scalcagnata), le parentesi cristologiche del film vertono tutte in una direzione precisa e misticheggiante, e il protagonista con sguardo gelido e lacrime agli occhi guarda nel vuoto, nel bianco che sovrasta tutto, alla ricerca del fantasma della moglie morta, che forse lo invita a seguirlo nell’Aldilà. Ma poi lo sguardo di Hugh Glass si perde e, tra i brividi, Di Caprio dedica l’ultima inquadratura del film ad un intenso sguardo in macchina di una leziosità spaventosa. Cosa ci vuole dire Iñàrritu? Che il redivivo, compiuta la vendetta, si rivolge allo spettatore per cercare una qualche soddisfazione che in realtà non riesce a ricevere, quasi come se noi dovessimo avere pietà di lui? Che il redivivo anzi osservi lo spettatore quasi cercando lo sguardo del fantasma della moglie, cercando di reinnamorarsi di qualcosa che sia vivo, anzi, che sia più vivo del redivivo stesso? Ci piacerebbe credere ad una di queste letture, sinceramente legate ad un cinema d’autore di qualche sorta, ma la più probabile lettura è ben più terra terra: Iñàrritu e Lubezki non c’entrano niente, quello sguardo non consiste in un’ennesima, fisica immedesimazione dello spettatore nello spazio magico, glaciale e terrificante di questo film vuoto e impressionante; quello sguardo è solo il disperato urlo con cui gli occhi di Leonardo Di Caprio richiedono all’Academy misericordia. Potrebbe bastare a Leo per il tanto agognato Oscar, anzi glielo auguriamo, ma sicuramente non basta a noi per salvare l’ennesimo film autoreferenziale, pretenzioso e furbetto di Alejandro Gonzales Iñàrritu.
Nicola Settis