“Questa canzone la dedichiamo a quelli che Platone chiamava, molto più poeticamente di noi, i figli della luna; alle persone che noi chiamiamo gay oppure, per una strana forma di compiacimento, diversi, se non addirittura culi. La dedichiamo a loro perché per loro è stata scritta, e ci fa piacere dedicarla a luci accese, perché almeno in Europa, almeno oggi, nessuno debba più vergognarsi di essere semplicemente quello che è”
Fabrizio De Andrè, concerti 1992-93, Introduzione a “Andrea”
Arriva oggi nelle sale italiane Carol di Todd Haynes, che fu in concorso a Cannes (palma a Rooney Mara) ed ebbe una doverosa vetrina al Festival di Roma. La sinossi – della quale ci importa relativamente: siamo e saremo sempre attratti dal come più che dal cosa – riguarda la giovane commessa di un negozio di giocattoli, Therese (Rooney Mara), che cova un talento e una sensibilità non comuni per la fotografia, avvicinata e sedotta dall’avvenente signora borghese Carol Aird (Cate Blanchett), che acquista da lei un treno giocattolo dimenticando strategicamente i guanti sul bancone. Innescato il meccanismo di inseguimento reciproco che culminerà con la fuga delle due donne, insieme, durante le vacanze di Natale – la prima lasciando un fidanzato che sperava di sposarla, la seconda una complicata situazione familiare con un rude marito e la piccola innocente figlia di cui si dibatte in sede legale l’affidamento – alla volta di Waterloo, Iowa (sì, Iowa), che sarà, come si può immaginare, galeotta, il film di Haynes sfreccia in una ricostruzione abbacinante degli anni Cinquanta statunitensi, facendone respirare l’estetica, i costumi e la mentalità, nella perfezione stilistica, formale ed emozionale del Cinema classico. Con tanto di clamorose derive spionistiche con accenti noir femmefataleggianti, tra pistole che non sparano e strizzate d’occhio coppoliane (naturalmente da La conversazione), Carol fa esplodere nelle forme più calde del melodramma hollywoodiano à la Douglas Sirk un grido di libertà scevro di qualsiasi retorica, storia d’amore sincera, tenera e sensuale in un mondo non ancora pronto per accettarla. Cinematograficamente, King Vidor incontra Vincente Minnelli; sullo schermo, crollano i muri della cecità bigotta, delle apparenze, degli schemi più rigidi, dell’omofobia.
Colpisce in prima battuta la confezione eccelsa del film, affidata al meglio di ciascun settore: musiche di Carter Burwell (sodale dei Coen presidenti della Giuria cannense, i primi giudici di quest’opera), fotografia di Ed Lachmann (con Haynes da Lontano dal Paradiso), costumi di Sandy Powell. Con le atmosfere degli anni ’50 (siamo a cavallo del ’52 e del ’53), Haynes aveva già avuto modo di familiarizzare grazie all’imponente progetto di Mildred Pearce, che pure si reggeva interamente sulla performance di una sublime diva bionda. Lì era la Winslet, qui è Cate Blanchett, che ruba la scena a qualunque cosa, animale o persona le faccia compagnia nel fotogramma, eppure trova in Rooney Mara (mai così somigliante a Audrey Hepburn) un doppio dal perfetto incastro, tanto più lieve, dolce, sensibile quanto più la sua Carol diventa spigolosa, isterica, sensuale. Ma lo sguardo, alla fine, torna sempre su Cate: è una Blanchett radiosa, magnetica, magmatica, forse più ancora che in Blue Jasmine, in una prova attoriale sublime.
Ci vuole una regia calibrata ed elegante – con una forte personalità che si esprime soprattutto nel modo di inquadrare e giustapporre tra essi primi piani e dettagli – come quella di Todd Haynes per costruire attorno a due così vivide e forti personalità un praticabile e agevole spazio performativo. Mai invasivo e compiaciuto stilisticamente, ma mai neanche televisivamente servizievole o neutro. D’altra parte, il regista statunitense ha saputo fare i suoi indispensabili “passi indietro” nei momenti opportuni, come il finale, decisivo gioco di sguardi tra Carol e Therese, che abbiamo commentato io e il nostro Erik Negro, in prima fila alla Soixantiême: “Guarda quello sguardo, guarda come si è preso quello sguardo!” fa lui, tradendo un’emozione che mi ha reso felice e commentando il movimento di macchina che andava a cercare Carol al tavolo di una cena elegante. “Puoi essere Todd Haynes quanto ti pare, ma arriva il momento in cui là davanti devi avere per forza una come Cate Blanchett”, rispondo io, notando che nel movimento di camera a mano che ci aveva portati a quel punto, Haynes aveva trovato un terzo modo, nello stesso film, di risolvere una soggettiva. Non è da molti.
Dalla regia di questo film gli aspiranti cineasti potrebbero appuntarsi l’uso della quinta non solo come elemento scenico di contestualizzazione spaziale ma anche come pennellata cromatica in termini puramente compositivi del fotogramma. Oppure la scelta dei colori (i blu, i verdi e soprattutto i rossi degli abiti indossati da Carol, per non parlare dello smalto, che si rivelerà cruciale in una precisa scena del film) e la capacità (di Lachmann) di renderli con tale significativo risalto, facendoli vivere nel formicolare della grana grossa, soprattutto in interni. Carol è uno splendido film di ricostruzione d’epoca (anche in esterni) ma strutturalmente giocato sui primi piani delle due donne, in tutte le salse, sempre con un elemento di costrizione, sempre con un sentore di prigionia: dietro i finestrini, con e senza pioggia, con o senza rifrazioni di luce, attraverso gli specchi, dentro le cabine telefoniche, nel punto di fuga di un corridoio. Ma basta parlare di tecnicismi: quello di Todd Haynes è un omaggio al cinema classico hollywodiano che sa infrangere il codice Hays per continuare a emozionare. E noi, da appassionati spettatori ben prima che da critici o da cineasti, ci siamo profondamente emozionati. Volevamo ardentemente che qualcuno facesse questo film, e che lo facesse esattamente così. Perché, al di là dei metalinguaggi, al di là della perizia tecnica, al di là della ricostruzione storica, durante le proiezioni di Carol abbiamo visto una vita, pura e palpitante, e l’abbiamo portata nel cuore, dimenticando ben presto che fosse finzione cinematografica. Succede di rado, e anche per questo Todd Haynes ha firmato un film miracoloso.
Elio Di Pace, Marco Romagna