Approfondimento dell’articolo originariamente pubblicato su Il Manifesto
“Eventually, I just sort of discarded the costume, and filmed myself naked. Last fall, I got very paranoid, and I cut out a lot of the naked parts. A lot of pans down my body were cut out. I left all the shots that were at a distance, but I cut out a lot of the ones that I felt really looked seductive. I wanted to take all that seductiveness out of the film, but I discovered you couldn’t really do that. You take a picture of a naked body: it’s seductive. But I did take out some of the best scenes, several hours of film”
Anne Charlotte Robertson
Ci sono film che più di altri ti fanno interrogare sul senso stesso della rappresentazione, o forse di come la percezione possa suscitare sentimenti così reali che il cinema stesso fatica a definire. Anne Charlotte Robertson, allieva di Saul Levine e vicino ai lavori di Ed Pincus, aveva deciso di girarsi per cinque anni (che poi diventeranno quindici) con la sua piccola Super-8 in tutti i momenti della propria vita, in un modo che probabilmente non si è mai visto prima e che si pone in contraddizione totale ma in paradossale vicinanza con l’uso attuale dell’auto-rappresentazione. Dal 1981 al 97 condensa in 38 ore esperienze, sogni, paure, desideri e soprattutto una continua e devastante inadeguatezza nel vivere. Siamo a Framingham, nel Massachusetts, quasi un archetipo di provincia americana in cui viene rappresentato un mondo intero. Protagoniste dei rulli (ne abbiamo visti solo quattro tra Rotterdam e Lisbona – il 22, 23 e 26 del 1982 e l’80 del 1994) sono le mille sfaccettature della personalità di Anne, le sue lotte continue con la depressione e l’ansia che la divorano. Il quotidiano prende il sopravvento tra la fascinazione verso Tom Baker, la battaglia contro la bilancia, l’affetto per i gatti e la morte del nipotino; poi ci sono le sue riflessioni dolorosissime ed estremamente consapevoli sulla malattia e sugli effetti collaterali che subisce per via dei farmaci.
Un costante gioco a conoscere e a conoscersi, con la Robertson stessa che a fasi alterne torna sulle immagini per commentarle, narrando su tape i rulli muti, per vedersi allo specchio a distanza di tempo e cercare di capire dove stia andando. Ma tutto ciò non è solo un diario stratificato, perché in mezzo – tra l’obiettivo della macchina da presa e quello che noi guardiamo – c’è una persona, il suo crescere, il bisogno istintivo del filmarsi in maniera terapeutica e conviviale. Emerge una solitudine e una dolcezza assoluta, dai fotogrammi della Robertson, proprio perché nell’ingenuità di quei rulli c’è la materia stessa del cinema e la sua fascinazione in un flusso senza sosta, intenso ed emotivo. I suoi film non sono completamente negativi, per la giocosa consapevolezza di sé e l’umorismo stimolante che dona una luce rara alle profondità dei momenti più bui. Anne coraggiosamente ha esposto i suoi dialoghi interiori più intimi e ossessivi, e il filmarsi a tratti l’ha addirittura salvata dal personale oblio del non riconoscersi adeguata al mondo. Non esistono i tagli perché quella materia appartiene, appunto, al flusso della vita e non fa altro che ricordarla com’è trascorsa. Guardare oggi questi frammenti e pensare a quale deriva abbia preso l’immagine, soprattutto quella dell’autorappresentazione, e la continua messa in mostra e in bacheca di noi stessi, è agghiacciante. Lo spazio umano (e politico) del guardarsi per cercare la curiosità del conoscersi pare non esserci più.
E forse proprio qui sta il motivo fondamentale di una delle opere più particolari ed intime riscoperte degli ultimi anni. La Robertson non volle mai far vedere a nessuno questi diari, perché in fondo avevano un presunto destinatario, un principe azzurro. A loro modo dovevano essere un pegno d’amore: chi avesse voluto sposarla in quelle trentotto ore l’avrebbe conosciuta fin da giovanissima, avrebbe apprezzato i suoi pregi e i suoi difetti, l’avrebbe amata per quello che in fondo era, in ogni singolo momento. Lei aveva paura di dimenticarsi chi fosse stata, e allora ecco i diari, e la loro magia pressoché unica. Anne se n’è andata tre anni fa per colpa di un cancro, e probabilmente quell’uomo ideale non lo ha mai incontrato. Però in eredità ci ha lasciato quest’opera straordinaria, di cui basta solo un’ora per innamorarsene. Viene davvero la voglia di conoscerla, e di amarla, non tanto come autrice – e di uno dei più importanti lavori di cinema diaristico di sempre – , ma come anima, come ragazza. E proprio come ragazza il cinema l’ha accettata, e la sua vita è rimasta per sempre nella finita immortalità di una pellicola.
Erik Negro