Ben Rivers è uno degli autori sperimentali più interessanti del Cinema britannico. Documentarista contemplativo di interesse etnografico, lavora con la materia cinematografica da un decennio abbondante, e ha portato alla luce almeno tre grandi lungometraggi negli anni passati: Two Years at Sea (2011), trattato in Cinemascope sulla solitudine, sull’isolamento; A spell to ward off the darkness (2013), collaborazione illuminante con Ben Russell che tripartisce la vita di un musicista quasi a definire uno spazio anarchico e sovversivo in cui riflettere sul cinema attraverso il suo processo in direzione della libertà; e The sky trembles and the Earth is afraid and the two eyes are not brothers, recuperato da CineLapsus già a Locarno quest’anno, un semplice ma intenso film sempre incentrato su di una fuga verso la libertà. Fuga verso la libertà che è uno dei fulcri del suo (meta)cinema incantato ed esoterico, violento e sciamanico. La sua filmografia, costellata di cortometraggi (dei quali l’apice assoluto è senza dubbio alcuno Ah, liberty!, 2008) ha portato quest’anno a A distant episode, che con il suo quarto d’ora abbondante ha riempito gli schermi argentei prima del Portogallo al DocLisboa e poi dell’Italia al TFF con proiezioni in un 16mm al contempo brillante e rigoroso.
Il film parte con un’inquadratura larga. La luce lampeggia, gli effetti sonori roboanti di forte valenza espressiva rendono disturbanti le immagini che si susseguono: montagne, astronauti sulla spiaggia terrestre che si baciano attraverso i caschi (indossando tute palesemente inguardabili, come quelle dei film di Ed Wood). Sovrapposizioni di immagini, animali, volti, ombre che spuntano dal nulla, disorientando, persone che si inseguono nel niente, vagando in moti confusi (accecati da immagini che non comprendono, come lo spettatore?). Siamo nel backstage di The sky trembles and the Earth is afraid and the two eyes are not brothers, in un limbo che prende le proprie evocazioni da Paul Bowles (A distant episode è il titolo del suo racconto del 1947 da cui è stato tratto l’ultimo lungometraggio di Rivers, appunto), limbo onirico in cui la luce spunta quasi da dietro l’immagine.
Sembra davvero un film muto, o un tributo ad essi, sulla scia di Lumière & Co. (1995). Entrano in campo bruciature di pellicola, mentre la cornice nera attorno all’inquadratura simil-Cinemascope si rende sempre più cupa e opprimente, perché il nero comincia ad apparire minaccioso pure nei fotogrammi, alternando la musica (che sia soft jazz o drone) ad un silenzio cupo. Immagini di rovine – carenza di libertà, spazi vuoti in cui si muovono inesorabili entità fisiche dell’etnografico, le comparse e i protagonisti del suo ultimo film. Sguardi nel vuoto. Gli uomini sulla spiaggia sono la troupe o semplici bagnanti? L’aliena consuetudine grafica di questi pseudo-astronauti da B-movie appartiene a quale branca del cinema di Rivers? Non siamo più nell’etnografia, siamo piombati in un mistico estraniante, in un mondo che è “tra i mondi”, tra il mondo dell’ultimo film di Rivers (di cui non rimane niente, manco le melanconiche e solitarie ombre dei microfonisti che camminano senza direzione dà un’idea di quel che il film è stato o è o può essere) o il mondo di Rivers tutto, il mondo di questa ricerca disperata, di questo anelito di libertà.
In questo cupo bianco e nero, più che mai la libertà si ritrova nei grigi, nell’ombra rarefatta che bisogna esperire senza spiegazione, ma anche senza fermarsi all’apparenza di un’immagine così poco sospesa tra un lato e l’altro della scala cromatica, tra la completa assenza di un’anima (l’anima è il pigmento – non per niente A spell to ward off the darkness diventa man a mano più tendente al nero più il suo protagonista è destinato a svanire dentro sé stesso) e la sua onnipresenza. Si vedono le riprese di un film altro, che non è quello di Rivers bensì (forse) quello di Oliver Laxe, amico regista di Rivers il cui film è al centro della prima parte di The sky trembles – e Laxe poi è anche protagonista del film e alterego dell’autore britannico. Ma mentre l’immagine scende sempre di più nel reame dell’improbabile, ecco un’inquadratura che illumina sul significato dell’opera, mettendo in scena la luce attraverso il buio, gli sche(r)mi che facilitano l’illuminazione in un’inquadratura. Sono posti in maniera diversa, obliqui, alieni rispetto alle figure – alla troupe, ai pellegrini, agli astronauti. Ma sono anche alieni alla prospettiva, sbilenchi, estranei, né perpendicolari né paralleli né alla macchina da presa di Rivers né a quella di Laxe.
Gli spazi sono perennemente vuoti, come rovine, come privati della vitalità data dal cinema, o dal colore. Cinema, vita, colore: libertà. Una corsa di un uomo dal buio verso la luce, urla ma non lo sentiamo, si libera ma lo spettatore non lo percepisce, perché lo spettatore è bloccato davanti all’immagine e lo sforzo dell’uomo è bloccato dentro di essa. Ma i tentativi di raggiungimento della libertà non muoiono lì. I parallelepipedi di luce, specchi per il futuro e per la libertà, rimangono in mezzo alla spiaggia, e creano luce per l’uomo che rimane ombra, che rimane figura ritagliata nell’inquadratura, quasi come le sagome dei personaggi dei film di Lotte Reiniger prima o Michel Ocelot dopo. Parvenze di bruciature di pellicola fanno confondere l’immagine nel suo stesso buio. È come un ritorno all’inizio della fotografia, siamo nel 1877 e William Henry Jackson sta stampando in immagini in bianco e nero le lagune del Nuovo Messico, oppure il Sole tramonta in lontananza rispetto alla maestosità inquietante della macchina da presa, del flusso d’immagini che Rivers ci ha regalato in una delle sue opere più intense.
Nicola Settis