Il 2015 è stato l’anno del decennale del Festival IndieLisboa, il momento nel quale in Portogallo confluiscono alcune fra le principali e più geniali produzioni indipendenti e low budget da tutto il mondo. La direzione del Festival, per festeggiare il lieto evento, ha chiesto a quattro registi amici di girare, lasciando loro carta bianca e piena libertà creativa, altrettanti cortometraggi pronti a confluire nel film collettivo Aqui, em Lisboa: Episódios de vita da Cidade, presentato nella sezione Onde del 33mo Torino Film Festival. La richiesta della committenza era una sola, ovverosia che il film riguardasse in qualche modo la capitale lusitana, come già nel 2013 della Biennale aveva chiesto ai settanta registi coinvolti in Venezia70-Future Reloaded di interrogarsi liberamente sul futuro del cinema secondo le proprie opinioni e modalità. Il risultato è un affresco a otto mani della città e delle sue splendide ed insite bizzarrie, una serie di ritratti in cinema di una città che già di per sé è cinema, sempre splendida anche nel suo degrado fra le vorticose salite a picco sull’Oceano, il tavolino preferito di Fernando Pessoa e le passeggiate di Manoel De Oliveira. Non è affatto raro, quando ci si ritrova dinanzi ad operazioni cinematografiche del genere, che l’andamento del lungometraggio risulti troppo oscillante, in un film così nettamente separato in tronconi forse troppo indipendenti uno dall’altro, senza un reale filo conduttore né un tema in comune che possano garantire unità di intenti o qualitativa. Ma è al contempo altrettanto vero, e Aqui, em Lisboa non fa eccezione, che anche in un bilancio generale non totalmente convincente è quasi sempre possibile, in questi film, trovare sprazzi di Cinema altissimo, sublime, ispirato, in grado di alzare drasticamente l’asticella di tutto il progetto.
È soprattutto il caso, in Aqui, em Lisboa, del segmento scritto, diretto e intepretato da Gabriel Abrantes, talentuoso e irriverente regista statunitense di cortometraggi già noto al pubblico italiano dalla proiezione del magnifico Ennui Ennui al Festival di Roma 2013. La sua parte arriva come terza delle quattro, urticante e destabilizzante dopo gli episodi diretti da Dominga Sottomayor, senza dubbio il segmento più debole dell’intero progetto, impegnato senza troppa convinzione a narrare le zone più povere della città seguendo un’attrice spagnola in vacanza dopo la prima portoghese del suo ultimo film, e quello del canadese Denis Côté, già decisamente più affascinante, ma basato più sulla spettacolarità di un terzetto free jazz che su una reale idea di sceneggiatura e multiculturalismo. Quello di Abrantes è invece un segmento eretico e maledettamente spassoso, mockumentary televisivo affidato al narratore Herner Werzog (no, non è un refuso di stampa, è semplicemente una parodia) nel quale Abrantes stesso si mette in scena come un perdente, un inetto segretamente innamorato della sorella della propria fidanzata e da lei vessato e costantemente deriso. Ma non manca, in una profusione di gag irresistibili fra cui un falso trailer-parodia di Woody Allen mandato come pubblicità del tv show, una ben precisa critica alla società moderna, che mira a leggere nel pensiero mentre non è in grado di comprendere le persone, le calpesta senza cuore, troppo presa dall’autocelebrazione del proprio ego e delle proprie conquiste personali. L’episodio di Abrantes, al di là delle risate e della caratterizzazione di Lisbona come microcosmo nel quale, se non vale proprio tutto, poco ci manca, si dimostra una perla surreale, apparentemente folle quanto in realtà perfettamente focalizzata sul proprio obiettivo, una bomba ad orologeria su un lavoro fino a quel momento interessante, ma senza particolari spunti.
Non è tuttavia solo l’ottimo episodio di Avrantes a salvare, a conti fatti il progetto. Anche l’ultimo segmento infatti, affidato alla più cauta macchina da presa di Marie Losier, si dimostra, pur privo di particolari originalità e guizzi, in grado di sorprendere ed interessare, scatenando il proprio irresistibile magnetismo fra il linguaggio sperimentale ed il gusto del proibito. Il cortometraggio della regista francese classe ’72 dimostra infatti un amore viscerale verso Lisbona e le sue peculiarità, focalizzandosi sulla maturità della città e del Portogallo tutto nei confronti delle tematiche LGBT, sul desiderio, sulla provocazione, sulla promiscuità. Fra immagini distorte di (non a caso) pesci e uccelli, tra drag queen spiaggiate, gustosi camei di Joao Pedro Rodrigues e -sorpresa assoluta e squisitamente metafestivaliera- il direttore artistico di TFFdoc e DocLisboa Davide Oberto, il segmento della Losier omaggia quella Lisbona splendidamente notturna e festaiola, fra locali sempre aperti, vita e musicalità dilagante. Una Lisbona però al contempo sempre culturale, cosmopolita, intelligente, cinematografica. Una città dove vivere, o quantomeno sognare. Aqui, em Lisboa, in definitiva, non è un bel film, troppo altalenante, opaco in almeno un episodio e limitato dalla pluralità di mani senza un reale progetto comune. Viene in mente, come termine di paragone inevitabile, quel Centro Historico affidato nel 2012 alle (ben più) sapienti mani di Aki Kaurismaki, Manoel De Oliveira, Pedro Costa e Victor Erice, pressoché identico nella struttura, ma forte di un’idea centrale e dei singoli -irripetibili- talenti dei registi, in grado di ergerlo tutt’oggi a film imperdibile. Non è il caso di quest’opera collettiva, della quale probabilmente rimarrà solo l’episodio di Abrantes e poco più. Ma sarebbe in definitiva ingeneroso attaccarlo o definirlo un gioco inutile: Aqui, em Lisboa è, nonostante i non moltissimi alti e i troppi bassi, una visione tutto sommato piacevole, un modo affascinante e magnetico per passare un’ora e mezza, un film che intrattiene, emoziona, fa pensare. Un film che, nel bene e nel male, ci sentiamo di consigliare.
Marco Romagna