Nell’incredulità pressoché generale, viene confinato nella pur nobile vetrina di Un Certain Regard un film preziosissimo, atteso come pochi, già più o meno diffusamente ritenuto – a ragione – memorabile, da tanti amici critici o comunque da sensibili spettatori di grande cinema: si tratta Rak Ti Khon Kaen (titolo internazionale Cemetery of Splendour) di Apichatpong Weerasethakul, capofila dei cineasti thailandesi, imprescindibile sguardo del cinema contemporaneo, ideatore di un magistero visivo che ha già fatto scuola (e continua a farla).
Quel sublime autore che per gli amici è “Joe” è tornato a Cannes dopo gli indimenticabili sessanta minuti di Mekong Hotel, e nel frattempo ci aveva lasciati ad attenderlo con il corto cortissimo Rolling, circolato sul web qualche mese fa, in cui avevamo potuto riconoscere la sua mano anche attraverso le sporche ma variopinte immagini girate da un cellulare, montate insieme a un audio che è – invece – un marchio di fabbrica, con la scrosciante acqua di un ruscello e il rumore ambiente del bosco intorno.
Questo ultimo lavoro di Weerasethakul si ambienta principalmente in un ospedale militare (i genitori del regista erano medici, i rituali della corsia lo affascinano fin dall’infanzia) nel quale sono ricoverati soldati sospesi tra la vita e la morte, costretti a un inquietante stato comatoso da quella che viene rubricata come “sleeping sickness”, malattia del sonno. Questa improvvisata struttura giace sul Cimitero dello Splendore – donde il titolo del film – nel quale riposano antichi re del passato che, come viene spiegato alla zoppa volontaria Jenjira dalle due divinità laotiane che le appaiono in comuni corpi femminili dopo devote offerte, si alimentano degli spiriti dei degenti per continuare nell’aldilà (ma faremmo meglio a dire “altrove”) le loro battaglie.
Perfettamente coerente al percorso di ricerca visiva che con il suo cinema Weerasethakul dedica agli itinerari delle anime prima e dopo la morte, Cemetery of Splendour ha in questa dialettica “spiritica” tra il sotterraneo e la superficie un punto di contatto con Shining di Kubrick, nel quale si ricorderà che le fondamenta dell’Overlook Hotel giacevano su un antico cimitero indiano, e proprio l’abilità pellerossa di seguire le tracce trasmigrerà nell’intuizione di Danny aiutandolo uscire dal letale labirinto. Qui, ovviamente, siamo in territori diversissimi, è ovvio che quella di Kubrick è solo un’associazione che ci piaceva mettere sul piatto.
La grandezza e l’assoluta peculiarità della poetica di Weerasethakul, comunque, si manifestano in modalità di racconto che sono sue e solo sue. Il sospetto che i vivi e i morti facciano parte di un unico mondo senza soluzione di continuità, un mondo che potrebbe anche essere identificato romanticamente con lo spazio del fotogramma e con il tempo della permanenza dell’immagine sulla retina, è destato dal viraggio in rosso, verde e blu di certi ambienti urbani frequentati da Jenjira, che cambiano luce proprio come cambiano luce i tubi al neon sistemati accanto ai letti dei soldati in degenza per la “light therapy”, metodo sperimentato dai medici per lenire il tormentato sonno dei pazienti (che di tanto in tanto si lasciano addirittura andare a qualche sbarazzina erezione che suscita l’ilarità generale: non sono pochi, in questo film, i momenti in cui si accarezza il tono della commedia tout court). Un’altra sequenza chiave del film è il cammino della dea Keng (l’attrice che la interpreta, Jarinpattra Rueangram, è alla prima esperienza cinematografica: laureata in economia e commercio, è ambasciatrice per la Pan Thai Air) e di Jenjira nella foresta (curioso leitmotiv di questo festival, dopo Garrone e Van Sant), che ospitava la reggia di un re antico, che rivive in tutti i suoi preziosismi nel lussureggiare della vegetazione: è qui, molto probabilmente, che Jenjira acquista definitiva consapevolezza dell’osmosi tra l’aldilà e “l’aldiqua”, tra i vivi e i morti, tra gli spiriti e i corpi. E c’è un momento, non privo di una certa carica erotica tra le due donne, che sembra concretizzare questa unione. Preludio al malinconico finale, con la ruspa che ha completamente squadernato il cimitero: tra gli spiriti dei sovrani i bambini giocano a pallone impolverandosi.
Un divertente retroscena, infine, è legato al direttore della fotografia di Cemetery of Splendour, Diego Garcia (che peraltro è riuscito a conferire a questo film una perfetta continuità cromatica e compositiva con i precedenti): il portoghese Miguel Gomes aveva opzionato il sodale di Weerasethakul Sayombhu Mukdeeprom per le riprese del colossale film in tre parti su Le Mille e Una Notte. A salvare Joe dal naufragio fotografico è stato l’amico Carlo Reygadas, che gli ha presentato Garcia, che proprio per il film venturo di Reygadas è già al lavoro.
Elio Di Pace