“Il Neorealismo, se non è inteso come vasta esigenza di ricerca e di indagine, non ci interessa più. Occorre fare i conti con i miti moderni, con le incoerenze, con la corruzione, con gli esempi splendidi di eroismi inutili, con i sussulti della morale: occorre sapere e potere rappresentare tutto ciò”
Elio Petri
In primo luogo, in Messer Im Kopf, c’è la Germania Ovest disorientata dal crepuscolo degli anni Settanta. Un Paese che annaspa nel pieno vortice dei propri anni di piombo, da una parte le azioni firmate con la stella rossa sormontata da un mitra della RAF, i sequestri e il sangue, dall’altra la polizia politica, le repressioni, l’ipocrisia delle “ragioni di stato”, le ingiuste persecuzioni e qualche morte misteriosa: quando la cura supera il “male”. Una condizione socio-politica ancor più complessa del ‘nostrano’ brigatismo, diverse facce di un terrore che andava ben oltre l’Autunno Tedesco del ’77. Il clima pesante di una fase storica di stallo, incertezza e ambiguità, dagli attentati alla profusione di abusi e soprusi da parte del potere, sfociato in quella che si potrebbe definire la risposta teutonica al cinema di Elio Petri, prima con il monumentale mosaico di Germania in Autunno -su tutti l’episodio di Reiner Werner Fassbinder, ma anche quello di Edgar Reitz e i molti firmati da Kluge-, poi con Reinhard Hauff e, appunto, il suo Messer Im Kopf, fiction purissima, anzi film “di genere”, genialmente riproposta dal DocLisboa nell’ambito della retrospettiva sul terrorismo. Nella Bavaria immediatamente successiva al caso Schleyer e al dirottamento Lufthansa, con la successiva liberazione di tutti i passeggeri e i suicidi (?) dei militanti RAF in carcere a Stoccarda, Hauff ambienta un noir politico a tinte fortemente neorealiste che fa della straordinaria fisicità di Bruno Ganz il grimaldello per esplorare una società e una fase storica. Ed è incredibile rendersi conto di come, quasi quarant’anni dopo, lo schermo permetta ancora di respirare lo stesso clima di inquietudine, sospetto ed incertezza.
Nell’interpretazione superba, di corpo e di pancia, offerta da Bruno Ganz, trova vita Berthold Hoffman, biochimico con la passione per il violino che rimane coinvolto in una sparatoria nel centro dove lavora la moglie. Lo ritroveremo in ospedale, privo di memoria, incapace a muoversi e a parlare, gravemente offeso da un proiettile nel cervello sparato da un giovane poliziotto pronto a dichiarare di essere stato minacciato con un coltello: non sappiamo cosa sia successo, neanche Hoffman lo ricorda, ma ora è piantonato in ospedale, accusato di far parte di varie cellule rosse. Messer Im Kopf è il coltello messo in testa prima ancora che in mano a Hoffman dalle autorità, è il lavaggio del cervello perpetrato da chi vuole scagionarsi da un abuso, è la memoria storica di quel clima di terrore e sospetto che rivive su celluloide, ma è anche l’intima storia della resurrezione di un uomo che, con costanza e dignità, ritrova se stesso, la propria vita, la propria rispettabilità, la propria libertà, e procede alla disperata ricerca di ciò che ancora gli manca: la giustizia. Quello di Hauff è un film profondamente umano, nella sua potenza politica, perché la ricostruzione di una vita passa anche attraverso le debolezze, i rapporti con gli altri, l’affetto di una moglie nonostante tutto, i seni delle infermiere come strada verso la normalità. Il personaggio di Hoffman è un bambino impaurito che ritrova solo gradualmente il proprio corpo, la propria mente e la propria dignità, ma non perde mai mai la sagace ironia né la fisicità delle emozioni. Ganz riesce a esprimere una sofferenza fisica e psicologica capace di donare vita e dignità dai primi giorni di terapia intensiva fino alla guarigione, indipendentemente dall’effettivo svolgersi degli eventi di quella serata iniziale intelligentemente lasciata fuori campo, immersa nella nebbia di un periodo storico oscuro. Semplicemente, a un certo punto, “Non siamo più interessati a lei”, e in una strada buia di Monaco di Baviera Hoffman vede di nuovo la libertà, salvo rimetterla in discussione per ribaltare i ruoli iniziali e presentarsi a casa del poliziotto che gli aveva sparato: la ricerca di una verità impossibile, la sete di giustizia. Rivisto oggi, quello che rimane di Messer Im Kopf è, al di là del clima di terrore declinato in sublimi atmosfere thriller, una polizia ambigua, una stampa faziosa, una classe politica lontana, l’incertezza di una vendetta, il finale aperto come la Storia, della quale ci saranno sempre, giocoforza, più versioni. Quella di Messer Im Kopf è una realtà molto più attuale di quanto non si possa nè voglia pensare, ed è per questo che il film era nel ’78, ed è tuttora, così maledettamente necessario.
Marco Romagna