22 Febbraio 2025 -

WHAT DOES THAT NATURE SAY TO YOU (2025)
di Hong Sang-soo

Viene quasi naturale immaginare il test di gravidanza di Kim Min-hee con cui Hong Sang-soo ha scoperto che sarebbe diventato padre a 64 anni come gioiosa, ma come vedremo non per questo meno stratificata, scintilla scatenante dell’ispirazione alla base di What does that Nature say to you. Un lavoro, presentato nel concorso principale della 75ma Berlinale, con cui il cinema di ossessioni, in quanto tali necessariamente autobiografiche, e di estrosità (sempre più pan)artistiche che da metà anni Novanta il prolifico autore coreano trasforma in infinite e straordinariamente minimali variazioni sul tema, affronta questa volta di petto sentimenti, incontri, scontri, contraddizioni e imbarazzi di quella genitorialità già lambita ma solo di striscio in Introduction, concentrandosi tanto su quella biologica fra i genitori e una figlia cresciuta (ma sempre da proteggere), anzi due, quanto su quella declinata nei rapporti intergenerazionali non di sangue, eppure oramai a tutti gli effetti familiari, fra i futuri suoceri e un futuro genero splendidamente naïf. Un ragazzo che a sua volta non può che incarnare l’ennesimo aspirante poeta di dubbio talento dell’immaginario di Hong, magari pronto nel ‘solito’ ritorno al metacinema a dichiarare di sbancare il lunario realizzando ancor più acerbi «filmettini» dei matrimoni: l’ennesimo giovane dall’animo artistico nel quale ritrovare, ancora una volta, l’adolescenza come tenera depositaria di una creatività tanto rampante e intrisa di sogno quanto ancora necessariamente ingenua, immatura, in via di formazione (e quindi eternamente da indagare) così come lo è necessariamente ogni speranza verso il futuro. Una creatività che per ora (e forse per sempre, ma non è questo che conta) sarà anche leggermente miope e senza occhiali proprio come il personaggio principale – e non è certo un caso in tal senso che Hong scelga di sottolinearla fotografando l’intero film in un low-fi in leggero ma costante fuori fuoco che non può che riportare alla visione non (ancora) chiara del teoricissimo (e ben più sfocato) In water – eppure così genuina e spontanea nello spostarsi liberamente fra le possibili forme d’arte alla ricerca di un proprio definitivo sguardo da esprimere una sensibilità straordinaria, che forse non ha bisogno della «tecnica» di cui è invece maestra la madre/suocera, poetessa di gran successo, per imparare a «godere dell’attimo senza necessariamente capirlo».

È per questo che nel ripetersi simmetrico e modulare delle stesse parole con minime variazioni della poesia schematica, apparentemente banale e apertamente derisa dal gelo dei commensali che il protagonista declama ubriaco a tavola è sintetizzata una sorta di dichiarazione programmatica del metodo di tutto il cinema in totale sottrazione di Hong Sang-soo, quasi un suo guardarsi allo specchio, e ancora di più identificarsi (anche) nella vitalità, nella contemplazione della vita, nelle goffaggini, nei traumi e nell’inevitabile smarrimento dell’aspirante poeta. Così come non può che identificarsi nel padre interpretato da Kwon Hae-hyo già più volte suo alter-ego sullo schermo, non può che identificarsi nella già citata madre poetessa che, come lui, vive di ispirazione artistica, e con ogni probabilità si identifica pure nella sorella più grande e nei suoi episodi di depressione. Un po’ come se What does that Nature say to you, sorta di personalissima declinazione alcoolica e poetica che cerca un proprio spazio fra Indovina chi viene a cena e Ti presento i miei fra una panchina con vista sulla Natura, un taccuino su cui annotare le vibrazioni del quotidiano, una vecchia Kia Pride di metà anni Novanta e la consueta quantità indeterminata di bottiglie di makgeolli da spartirsi fra un pranzo e due (mezze) cene lungo otto capitoli in cui racchiudere poco più di dodici ore, volesse in qualche modo incarnare un prisma dialettico di padri e di figli con cui esorcizzare le inevitabili paure e insicurezze di chi, non più giovane all’anagrafe ma eternamente giovane (nel suo senso) nell’approccio all’arte e alla vita, sta per diventare responsabile della crescita di un essere umano. Tanto più se costretto a non poterlo riconoscere e dargli il cognome da una legge coreana particolarmente severa contro il more-uxorio che, complice il rifiuto della precedente moglie di Hong di accettare il divorzio nonostante la relazione ormai più che decennale del regista con la sua musa e attrice feticcio (qui per ovvi motivi “di pancione” del tutto assente) non potrà che fare dichiarare il nascituro figlio illegittimo. Un dettaglio che, ben lontano dalla gratuità del gossip, in qualche modo stratifica il rapporto nascente fra il non-padre (in quanto padre di lei) e il non-figlio (in quanto fidanzato della figlia), il quale invece, fuori campo, un padre pure ricco, famoso e importante lo avrebbe, ma che nel suo ostentare semplicità, frugalità e poche pretese nasconde proprio i dolori e le ristrettezze economiche del loro pessimo rapporto umano.

Parte da un inevitabile terzo grado che magari diventerà simpatia ma che, fra le grossolanità del giovane e un’inevitabile incomunicabilità di fondo, non potrà che rimanere incomprensione e dubbio sull’effettiva maturità del ragazzo e sulla sua effettiva comprensione dell’esistenza, il progressivo avvicinarsi e studiarsi del giovane con la famiglia della fidanzata. Un reciproco annusarsi tentando di capirsi che passa per modi gentili e un po’ impacciati ma anche per un sempre maggiore esporsi fino a ritrovarsi a mostrare, fra i fumi dell’alcool e l’emergere dei fantasmi familiari, i propri nervi più scoperti. Passando per ipotesi da non dare per scontate, per un padre alle spalle ben più complicato e insensibile di quanto non si possa presumere, per le sfumature emotive fra l’amore filiale e l’amore fraterno, per battute ripetute identiche dai diversi personaggi e per le loro differenti sensibilità a confronto di fronte ai monumenti che rievocano una memoria condivisa (e magari pubblicamente perduta) oppure lo spettacolo della Natura. Ma anche per la meditazione introspettiva e per un tramonto da andare a guardare insieme a costo di interrompere e poi riprendere la cena, per l’incanto lirico e per la capacità o meno di trasmetterlo al lettore (e di conseguenza allo spettatore), e pure per lo scontro che si fa necessariamente aperto, fra la semplicità di chi cerca solo ciò di cui ha necessariamente bisogno senza sfarzo né capricci e il più concreto realismo di chi ha vissuto più intoppi della vita, e vede di fronte a sé un bravo ragazzo mosso da sentimenti genuini, eppure in qualche modo staccato dalla realtà e dalle esperienze. Fino a un silenzio imbarazzato che renderà l’aria pesante più delle mille parole dette fino a quel momento, ma anche a una chitarra che tornerà a suonare nella notte mentre i coniugi scelgono ancora una volta di fidarsi dell’intelligenza della figlia, e poi a un’auto in panne che forse ormai sarebbe – per davvero – ora di cambiare. Elementi che Hong Sang-soo, come di consueto e forse ancora più del solito, riduce ai minimi termini di messa in scena in pianisequenza fissi che si concedono giusto una manciata di panoramiche e un paio di zoom, per un film volutamente spoglio e minimale con cui trasporre sullo schermo proprio quel sentimento di gioia ma anche di tensione e indefinitezza di chi si trova di fronte a un cambio di vita (e quindi inevitabilmente di sguardo), innamorato e perso fra la miriade di domande esistenziali che solo con il procedere del tempo potranno trovare una risposta. Consapevole di se stesso e dei propri sentimenti, eppure inevitabilmente (e pure per questo anche visivamente) sempre un po’ fuori fuoco, proprio come quelle risposte nebulose che è inutile tentare di darsi prima che possano finire di maturare lungo gli interstizi della vita.

Marco Romagna

“Geu jayeoni nege mworago hani” (2025)
N/A | South Korea
Regista Hong Sang-soo
Sceneggiatori N/A
Attori principali Kwon Hae-hyo, Ha Seong-guk, Yunhee Cho
IMDb Rating N/A

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