7 Febbraio 2025 -

BLAZING FISTS (2025)
di Takashi Miike

Era uscita poco più di un anno fa la notizia che l’iconoclasta e sempre iperprolifico Takashi Miike, autore di culto pronto nel frattempo fra lunghi, corti, video, serie TV e un altro paio di titoli già in pre-produzione a tagliare e superare il traguardo delle 120 regie in 34 anni di carriera, avrebbe realizzato un biopic sul(l’ex) lottatore MMA e cultore di arti marziali Mikuru Asakura. Il realtà, il suo nuovo Blazing Fists con cui torna ancora una volta all’International Film Festival Rotterdam giusto pochi giorni dopo l’uscita (con il diverso titolo BLUE FIGHT ~蒼き若者たちのブレイキングダウン~, traducibile come Blue Fight: The Breaking Down of Young Blue Warriors) nelle sale del Giappone, è sì dichiaratamente ispirato (d)al fighter nipponico, pure presente nel ruolo di se stesso prima a pronunciare i discorsi motivazionali che cambieranno la vita dei due protagonisti e poi come giudice nella ‘nuova’ Audition in cui otterranno un posto nella gabbia Breaking Down più importante della categoria, ma sin dalla sinossi prende una strada completamente differente dal film biografico, come di consueto spiazzante e proprio per questo perfettamente coerente, riportando il sempre anarchico e imprevedibile cinema miikiano tanto sui sentieri della ribellione e del dolore come riscatto del (per sempre) samurai quanto su quelli della violenza intrinseca nella società non solo giapponese, tanto sui sentieri parossistici e ipercinetici dei manga quanto su quelli dell’ironia grottesca della commedia action e sportiva, tanto sui sentieri bōsōzoku di gang giovanili e scalcagnati bikers con cui guardare all’Akira di Ōtomo quanto su quelli dei criminali magari sfregiati (magari ai confini con la yakuza, o in questo caso con le s-torture della legge e dello Stato) con cui tornare in qualche modo ai propri Dead or Alive e ancor più Ichi the Killer. Del resto, che cos’è la violenza fisica e psicologica subita da parte di una guardia del riformatorio dai due giovani protagonisti Ikuto e Ryoma – dei quali almeno uno totalmente innocente, proprio come è del tutto innocente il padre recluso in carcere – se non la stessa che era latente nella scuola dei vari Il canone del male e As the Gods will? Una violenza sistemica e bidirezionale, da parte di chi esercita il Potere e da parte di chi prima o poi, come una pentola a pressione destinata a esplodere, non potrà fare altro che rispondere, reagire, sguainare la propria katana e combattere da solo contro tutti. Magari trovando proprio nella sofferenza e nelle gocce di sangue – ed è qui che i pugni fiammeggianti di Blazing Fists svelano un’inaspettata parentela, per quanto in questo caso decisamente meno meta-cinefila e semmai ancora più prettamente politica, con l’Amir Naderi di Cut – una redenzione con cui definitivamente staccarsi dai tentativi di omologazione, dai rigidi sistemi di controllo statale, da quel porcile (letterale) che è un sistema correttivo che con le sue iniquità e repressioni ai limiti del bullismo rinchiude dei ragazzi per fare poi uscire dei criminali.

È un solo round in cui dare tutto in un minuto, il Breaking Down intorno al quale gira Blazing Fists. Un minuto sul quale Ryoma e soprattutto Ikuto, appena conosciutisi nei corridoi del riformatorio e ispirati, anzi folgorati, dal discorso con cui Mikuro Asakura racconta ai giovani detenuti di come la lotta sia stata per lui il definitivo riscatto una volta uscito dal carcere giovanile, decidono all’improvviso di puntare l’intera propria esistenza e ogni speranza futura. Come se combattere su un ring (e inevitabilmente in strada, nella vita) fosse l’unico modo che hanno di partire da zero e rialzare la testa, di farsi largo, di diventare qualcuno, di conquistare posizioni nelle rigide divisioni sociali del Sol Levante. Di difendersi da un male altrimenti inevitabile, congenito, già scritto sulle loro vite come un marchio di sfiducia e di criminalità. Fino a riplasmare, contro ogni pregiudizio sociale, il proprio destino e magari pure quello della famiglia e della giustizia, affrontando proprio il figlio, lui sì realmente delinquente(llo), di quel pubblico ministero che tanto si era prodigato a fabbricare le prove false con cui incastrare e incarcerare il padre di Ikuto per un omicidio che non aveva commesso. O magari a non poterlo fare personalmente perché già redenti, capaci di amare e di perdonare fino a farsi rompere un arto per salvare un proprio nemico, lasciando il compito di vincere e di fare giustizia proprio al leale e fidato Ryoma, a sua volta finalmente in grado di confessare a Ikuto il segreto ormai di Pulcinella di essere stato il vero autore del furto per il quale l’amico era stato arrestato e così di liberarsi di ogni peso dalla coscienza. L’apice di una storia di amicizia, occhi neri e sudore che passa per i ring della palestra e per le risse di strada con un apparentemente infinito moltiplicarsi di gang e di bikers sempre più pericolosi, per i lavori in libertà condizionata e per gli allenamenti sempre più duri, per gli occhi (nemmeno troppo) dolci di un’amica influencer e per due madri che finiranno per legarsi proprio come i protagonisti, fino a quella doppia telefonata con cui chiamare, insieme, i figli mentre sono insieme, in uno spassoso effetto domino di risposte incrociate e (in)comunicabilità generazionale. Solo uno fra i continui cambi di tono fra la pura adrenalina dell’azione, il dramma (familiare, carcerario, sociale), le più improbabili alleanze e una commedia buddy in cui anche la violenza più feroce si ammanta di surreale (basterebbe lo sgherro al quale viene tirata una freccetta sulla testa mentre è chino, che se la tiene piantata sul cranio senza fare una piega, come se nulla fosse), con cui Takashi Miike a partire da una sceneggiatura originale di Shin Kibayashi tiene insieme le fila di decine di personaggi, incontri e scontri, ma soprattutto combatte ancora una volta a fianco dei suoi protagonisti, dall’interno di un’industria in cui è da sempre perfettamente inserito, nell’ennesima ribellione sovversiva e anarcoide nei confronti di qualsiasi tipo di prassi cinematografica, di qualsiasi aspettativa, di qualsiasi limite venga in mente di porre. Con un magistrale inizio claustrofobico, con le esplosioni di rabbia e violenza in ogni angolo della società, con i momenti di irresistibile umorismo, con gli imbarazzi e i sensi di colpa, con il nascere e il consolidarsi di una reale amicizia in un mondo di sanguinosi rivali che continua a spostare l’asticella del “cattivo” fino alle torture con le lame infuocate e ai due contro cento da abbattere per non essere abbattuti. Con la scelta espressiva di ogni singolo volto, magari da tumefare in trucco prostetico (gli avversari sul ring, i più o meno credibili gangster, l’allenatore della palestra, i giovani detenuti, ma a ben vedere pure Danhi Kinoshita che interpreta Ikuto sembra fare tutto ciò che può per ricordare Rock Hudson), di ogni singolo taglio di luce, di ogni singola inquadratura, di ogni singolo movimento di macchina. Con un impeto di travolgente energia che è proprio solo dei più grandi, e che in Miike sembra miracolosamente ripresentarsi inalterato film dopo film dai primissimi anni Novanta degli esordi. Come un tocco d’autore sempre radicalmente diverso ma in realtà sempre uguale, sempre caotico ma in realtà sempre perfettamente strutturato, sempre apparentemente folle ma in realtà sempre perfettamente consapevole nelle sue metafore e nei suoi riferimenti. Sempre e ostinatamente libero ed eversivo, come una costante rivoluzione che sembra ancora ben lontana dall’esaurirsi.

Marco Romagna

“Blue Fight: The Breaking Down of Young Blue Warriors” (2025)
Action | Japan
Regista Takashi Miike
Sceneggiatori Shin Kibayashi
Attori principali Gackt, Anna Tsuchiya, Susumu Terajima
IMDb Rating N/A

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