9 Gennaio 2025 - e

HERE (2024)
di Robert Zemeckis

Nel 1989, il fumettista americano Richard McGuire (anche bassista nel gruppo dance-punk Liquid Liquid, noti per la iper-campionata Cavern) pubblica 6 pagine con la “storia” originale di Here, senza forse sapere che sarebbe diventata solo la bozza per un progetto molto più grande. Ogni vignetta rappresenta non tanto uno spazio, quanto una riflessione cubista sull’effetto del tempo sullo spazio — lo spazio è un salotto, e la vignetta contiene altre vignette, che fanno da finestre analettiche e prolettiche sul passato e sul presente. È un lavoro inedito nell’ambito del fumetto, quello che in inglese ancora si chiama (purtroppo, banalizzando) ‘comic’: chiaramente, come gli artisti e gli scrittori di ogni altra forma narrativa, già gli autori di fumetti avevano scoperto la grande flessibilità creativa e il coinvolgimento emotivo del flashback e del flashforward, ma l’approccio di McGuire è radicalmente diverso. Se prendiamo per esempio il “vero” Here, cioè la graphic novel di 300 e più pagine pubblicata nel 2014, vediamo che la narrazione non è in primo piano, ma nemmeno svanisce. Lo scomporsi dei piani temporali nelle singole vignette viene traslato a ogni paio di pagine, così che l’immergersi in una nuova “vignetta” (o meglio: in una nuova situazione che presenta la scomposizione sperimentale proposta da McGuire) è accompagnato ogni volta fisicamente, e dunque anche cognitivamente e empiricamente, dal gesto dello sfogliare la pagina. Se si leggesse integralmente la graphic novel di Here (pubblicata in Italia in una traduzione, per assurdo, di un altro bassista, Steve Piccolo dei Lounge Lizards, band fusion il cui frontman John Lurie era tra i protagonisti di Daunbailò) se ne potrebbe delineare certamente una progressione narrativa… si incasellano delle situazioni che si risolvono nel giro di qualche pagina, ma perlopiù nell’interesse dell’autore sembra trasparire un’idea di collasso assoluto della visione umana del tempo, e persino dell’idea ‘bergsoniana’ di un tempo relativizzato alla nostra umile esperienza. Difatti, se invece si scorge Here senza linearità, sfogliandolo in modo casuale (che è il modo più comodo per far capire agli ospiti le finalità e la forma del fumetto, se se ne ha una copia cartacea in casa), il lavoro di McGuire diventa anche una sorta di incrocio mediatico, in cui l’illustrazione su carta sembra quasi richiedere un approccio museale; sfogliare è come andare da una stanza all’altra della galleria, guardare i quadri come ammirare i momenti imprevedibili immaginati da McGuire come innesti nel viavai del tempo in un singolo spazio. La matita non si sposta mai dallo stesso punto di vista, e racconta un mondo che va dai dinosauri a 20mila anni nel nostro futuro, concentrandosi soprattutto sul periodo (XX e XI secoli) in cui, in quel posto “immaginato”, c’era un posto reale (questo), una casa edificata nel 1907, una location-mondo che da sola può raccontare migliaia di cose sul mondo, sull’America, e su come quest’esperienza di vita e di mondo.
Si potrebbe dire che l’Here fumetto di McGuire rappresenti simbolicamente il racconto delle complessità dell’esperienza umana nel tempo (e si parlerebbe dunque di ciò che fa l’autore in senso narrativo), ma ciò appiattirebbe il senso dell’operazione – sarebbe più o meno come dire che la video-arte di Bill Viola racconta il tempo elementale, privando la sua visione esoterica della carnalità evidente di fronte alle immagini, una carnalità da ‘vivere’. Il lavoro sperimentale di McGuire (e degli editori che si sono fidati di lui e affidati a lui) è in primis un lavoro teorico sull’immagine e nello specifico sull’immagine stampata, sul cartaceo, sul nostro approccio con la lettura e la visione, probabilmente il più antico tra i gesti culturali di cui l’essere umano è capace. Siamo, del resto, avvezzi all’idea che quando cominciamo a sfogliare un libro (che sia romanzo o poesia, saggistica o fumetto, filosofia o non-fiction) sprofondiamo in un macro-mondo o in un micro-mondo, ma sempre mediante schemi d’immersione progressiva: in termini più terra terra, e riferendoci a un romanzo il cui incipit e contenuto è conosciuto anche da chi non l’ha letto, prima scopriamo il nome di Ismaele, poi il linguaggio marittimo, e solo poi col capitano Achab andiamo a scontrarci col leviatano. La progressione per rivelazioni e contenuti è uno degli elementi primari della narrativa, se non il principale, e in Here tutto ciò è annullato. La nostra esperienza diventa libera. La nostra lettura dello spazio della pagina non è più vincolata, anzi, si ritrova a volteggiare nel tempo, come il punto di vista dell’autore. Navighiamo nel tempo.

È in questo senso che non è affatto difficile immaginare la sensazione di Robert Zemeckis una volta ritrovatosi di fronte alle tavole di McGuire. Un regista da sempre ossessionato dal tempo, dallo spazio, dalla teoria cinematografica, dalla Storia, dalla politica e dallo sguardo, ma anche dalle possibilità tecnologiche di (ri)plasmare all’infinito l’immagine per espandere le possibilità della narrazione e negli ultimi anni sempre più dalla memoria, che in qualche modo si vede allo specchio nelle identiche ossessioni su cui si impernia il fumetto, sorta di summa (in)consapevole della sua intera carriera. Come se quello fra Here e Zemeckis fosse stato sin dalla pubblicazione dell’opera di McGuire un incontro quasi inevitabile, la risacca di un’onda, forse l’unica possibile naturale prosecuzione della filmografia. Un necessario punto di approdo in cui ritrovarsi ancora una volta, forse ancor più che in Benvenuti a Marwen, a tirare le somme. Un territorio nel quale cercare attivamente la risposta a una domanda – come traslare questo senso di uno spazio/tempo che viene distrutto e ricreato da capo ogni paio di pagine, in un mezzo artistico come il cinema – e poi stratificarla di livelli potenzialmente infiniti. Il cinematografo, del resto, da sempre ha avuto la specifica del racconto del tempo, e in particolare regista, montatore, interpreti e compositori della colonna sonora si ritrovano a dettare i tempi di gestione e interpretazione delle singole scene con modalità che vengono imposte allo spettatore. La libertà data dal gesto dello sfogliare, in Zemeckis, non è replicabile, per lo meno fino a quando non l’home video non permetterà di giocare con la timeline. Ma l’approccio registico sembrava già scelto, per cui il paletto posto dal regista è stato, alla fin fine, uno solo, inevitabile: non muovere mai la macchina da presa. Certo, lo script (di Eric Roth, sceneggiatore tra gli altri di Forrest Gump Benjamin Button) non entra nello specifico delle visioni fantascientifiche di McGuire, e contempla una linea temporale che parte sì coi dinosauri, ma sembra chiudersi nel periodo pandemico del Coronavirus del 2020-21. La durata del film non è infinita o frammentata, e anzi si trova sotto le due ore. È stata inoltre utilizzata una tecnologia sperimentale di ringiovanimento (e invecchiamento) degli attori in diretta con intelligenza artificiale (Metaphysic Live), memorabile soprattutto per il lavoro su Tom Hanks e Robin Wright già protagonisti proprio di Forrest Gump e così riportati dalla loro forma ‘migliore’ (o, almeno, la più iconograficamente riconoscibile) fino alla vecchiaia, in una ‘uncanny valley’ tra reale e plastico in cui ancora una volta ragionare sul vero, sul falso, sullo spazio, sul tempo, sulla memoria, sullo sguardo, sull’inganno (del cinema), sul visibile e sul fuori campo (oltre un muro, in un riquadro che ricorda improvvisamente la Preistoria, o magari riflesso in uno specchio che come già in Allied e soprattutto Le verità nascoste ancora una volta svela – in un tempo oppure nell’altro – l’invisibile e quindi l’intrinseca menzogna di una cucina che era sempre stato celata, nella quale magari ritrovarsi a litigare fino alla fine di un matrimonio). Ma soprattutto sull’elaborazione tecnologica di un’immagine che come sempre in Zemeckis non basta più a se stessa, e come già nella commistione di Roger Rabbit e poi nella trilogia in performance capture Polar Express, La leggenda di BeowulfA Christmas Carol, ma anche nelle bambole del già citato Benvenuti a Marwen, nelle trasformazioni de Le Streghe (e dei bambini in topi) e nella gommosità dei character design disneyani di Pinocchio, ha bisogno di rinascere sotto (una qualche) forma di animazione, o per lo meno di realtà alternativa da reinventare a piacimento – «Guarda, ci sono due lune!».
Here, il film, trasla quindi il lavoro teorico e l’intensità rivoluzionaria del fumetto di McGuire sul cinema, e così facendo si ritrova a esplorare il tempo, certo, ma il tempo cinematografico, in un ennesimo e insistito Ritorno al Futuro che non ha più bisogno della DeLorean né di cambiare inquadratura per metterci faccia a faccia con le stesse sincronie superstoriche della graphic novel e (quindi) di tutto Zemeckis (il vero Benjamin Franklin sovrapposto a Hanks – già “parte della Storia” novecentesca nei suoi falsi incontri d’archivio come Forrest Gump – che fa la pantomima di Franklin, un oggetto sepolto che viene ritrovato e che da dettaglio apparentemente insignificante diventerà poesia, memoria, identità, umanità e amore oramai disinteressato che va avanti nonostante tutto, o ancora una canzone d’amore dei Beatles – non certo a caso motore del primo film in assoluto di Zemeckis 1964 – Allarme a N.Y. arrivano i Beatles! – innestata su un matrimonio di anni e anni dopo…). Ma anche con un costante promemoria di come la storiografia legata alle immagini sia una specifica novecentesca traslatasi nel presente, e che dobbiamo ancora affrontare completamente. Già il cortometraggio Tango (1980) di Zbigniew Rybczinski immaginava, con la macchina da presa fissa e con le più minuziose e alienanti tecnologie dell’epoca (pixillation con migliaia di esposizioni su stampante ottica, in un danzante moltiplicarsi di loop e livelli visivi), un simile approccio alla regia, e nel giro di 8 minuti sembra in effetti un Here ipercompresso – ma in confronto, per quanto geniale, il corto polacco da Oscar è riduttivo e goliardico. Nell’unicità del punto di vista ma nelle infinite possibili combinazioni di meta-finestre (e quindi di scarti temporali, ma anche concettuali, da ritrovarsi in un cambio di scenografia o nella possibilità di intravvedere oltre il muro della stanza), il film di Zemeckis propone invece un lucidissimo susseguirsi di simboli e confronti, dal protagonista che si chiama Richard per riecheggiare McGuire (ed è un illustratore!) fino all’autocitazione della ditta di trasporti Allied (che, prendendo il nome dal titolo del film al tempo appena precedente, non per nulla già in Benvenuti a Marwen annunciava al protagonista l’arrivo della vicina Nicol), passando per due generazioni, o meglio tre, che (con)vivono quelle mura per oltre mezzo secolo. Anche se è in realtà l’intero Novecento a passare per quell’unico luogo e per quell’unico punto di vista, attraverso altri mariti, altre mogli e altri figli (l’aviatore che rischia ogni giorno la vita sui primi aerei e che invece morirà di Spagnola, l’inventore e la sua sposa pin-up che si trasferiranno per lavoro, gli inquilini afrodiscendenti degli ultimi anni) e poi intrecciandosi con la Storia tutta, dai dinosauri ai coloni, dai Super8 agli schermi piatti, dal dopoguerra a domani. Come se Here fosse una sorta di prisma al tempo stesso temporale e atemporale di frammenti e situazioni, che in un solo luogo riesce a cristallizzare la Storia, la memoria, lo sguardo, la vita, il senso e le potenzialità inesplorate delle immagini e del cinema. Quel cinema in cui la medesima fissità del muto degli albori si sovrappone con le sue finestre all’interattività mosaicale e ipertestuale del futuro, mentre il Sogno Americano definitivamente si disgrega fino a rivelarsi in realtà insoddisfazione, sacrificio, rinuncia alle proprie ambizioni artistiche e di vita soffocate dal Capitale. Fallimento di un’intera generazione, anzi due, fra poco tre. Malcelata putrescenza di un Paese ipocrita e razzista, che ha fatto strage di nativi per poi schiavizzare l’Africa, e che ancora oggi costringe i genitori neri a spiegare ai ragazzini tutte le precauzioni da prendere per non farsi ammazzare in caso di fermo di polizia. Elementi che, ben al di là dell’inspiegabile (o forse spiegabilissimo) abbandono di Zemeckis da parte di critica e pubblico d’Oltreoceano, che dopo avere formato il proprio immaginario con i suoi capolavori degli anni Ottanta e Novanta ora sembrano fare a gara a chi più lo dileggia, fanno di Here l’ennesimo capolavoro zemeckisiano, forse il più importante da diversi anni a questa parte, e di certo il più intimamente testamentario. Un film meravigliosamente fantasmatico e immateriale (basterebbe la commovente sequenza dell’anziano padre che si alza dal letto per raggiungere il ricordo della moglie, o la proiezione delle vecchie pellicole amatoriali in cui rivedersi bambini, o ancora la malinconia dei cinquant’anni…), sanamente popolare eppure al contempo apertamente sperimentale, tanto umano e poetico quanto al contempo teorico e lucidissimo nel guardare alla nascita e alla morte delle (false) promesse d’America, analizzandone il farsi e il disfarsi in situazioni sempre brevi ma mai sbrigative. Fino al vero e proprio miracolo dreyeriano che, sul finale, interrompe il rigore registico con uno struggente movimento di macchina tanto inatteso quanto radicale, pronto a volare oltre i confini della casa e del visibile verso quello che si è stati e che ancora permane da qualche parte nella memoria e nei luoghi, dolcissimo e più forte di qualsiasi malattia. Semplicemente da rievocare, dalla testa oppure dal cuore. Come la piuma di Forrest Gump, forse. Come quello sguardo di vertigine verso il basso per omaggiare il pubblico dal centro del cavo di The Walk, sospesi nel cielo e nell’illusione. Come l’ennesimo Ritorno al Futuro di Marty McFly e Doc Brown in quel centro di Hill Valley sempre (quasi) uguale, eppure sempre del tutto diverso nel cambio dei decenni e nei loro possibili paradossi. Come nell’amore che rimane nonostante tutto alla fine di Allied. Come se in qualche modo fosse tornato Mister Wilson dal suo Cast Away solitario per mare, ancora e per sempre sorridente nel suo volto in cuoio sintetico. Qui e ora, Qui e (per) sempre. Nell’eternità.

Nicola Settis, Marco Romagna

Roma, 27 dicembre 2024
Ci è gradito comunicare che il film HERE di Robert Zemeckis, distribuito da Eagle Pictures, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
Nell’intuizione del graphic novel di Richard McGuire, Robert Zemeckis trova una chiave ideale per fare ciò che ha sempre fatto: coniugare il racconto più umano e universale possibile con il massimo della sfida tecnologica. Tra casa di bambole e screencast, la prospettiva fissa racconta uno spazio fisico unico popolato di infiniti spazi interiori, capaci di attraversare tempo e esistenze. Un caleidoscopio di gesti, sensazioni, sentimenti, stati d’animo che coinvolgono e commuovono.
(uscita 9 gennaio 2025)
“Here” (2024)
104 min | Drama | United States
Regista Robert Zemeckis
Sceneggiatori Eric Roth, Robert Zemeckis, Richard McGuire
Attori principali Tom Hanks, Robin Wright, Paul Bettany
IMDb Rating 6.2

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