Il cinema di Glauber Rocha è endemicamente e per certi versi inevitabilmente legato alla storia del Brasile e in particolare della zona da cui Rocha proviene, quel Nordeste povero e disagiato che più di ogni altra regione ha subito le conseguenze delle diverse crisi economiche e politiche che hanno travolto il più esteso e popoloso degli Stati dell’America Latina. Le drammatiche condizioni della popolazione, sia economico-sociali, sia personali in senso stretto (la vita media degli uomini non arrivava ai trent’anni), furono determinanti per l’insorgenza del cangaço, il fenomeno di banditismo che interessò quella regione del Brasile tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Il Nordeste del Brasile, per intenderci, è quel “corno” di terra che si slancia verso l’Atlantico, puntando in direzione dell’Africa. Posto a sud dell’equatore e a sud-est del Rio delle Amazzoni, che attraversa il nord del Paese, il Nordeste coincide di fatto con il sertão, un’area semi-arida in cui si alternano stagioni di siccità e periodi di violente piogge che causano inondazioni. Le criticità climatiche del sertão (termine che deriva da desertão) sono esse stesse causa delle dure condizioni di vita della popolazione locale. I cangaceiros ebbero gioco facile nel trovare seguaci pronti a dedicarsi al banditismo e al brigantaggio e a sposare le loro istanze di rivolta sociale, in una regione in cui l’abolizione della schiavitù si era realizzata soltanto sulla carta, visto che i lavoratori, sfruttati dai “colonnelli” (i coronéis, latifondisti locali), continuavano di fatto a essere schiavizzati. Un contesto che ben si prestava a essere narrato da un autore politico come Rocha, tra i padri della nouvelle vague brasiliana, quel Cinema Novo nato durante la presidenza del laburista Goulart (1961-1964), deposto dalla dittatura militare (il cosiddetto regime dei Gorillas). Con il loro avvento, i golpisti cancellarono un esperimento social-democratico per certi versi simile a quello che interesserà il Cile un decennio dopo: in Brasile la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere e il legame di Goulart con i comunisti furono tra le ragioni che spinsero gli americani ad appoggiare il golpe. Rocha dedicò al fenomeno del cangaço addirittura due film usciti in pochi anni: Il dio nero e il diavolo biondo (Deus e o Diabo na Terra do Sol, del 1964) e Antonio das Mortes (O Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro, del 1969). Per Rocha – la cui idea di cinema si poneva nel solco della tradizione sovietica degli anni Venti e del Neorealismo italiano, schierandosi invece contro le logiche industriali e produttive hollywoodiane, ma anche contro “il revisionismo piccolo-borghese della nouvelle vague” e contro il “surreal-espressionismo” – il cinema politico non era quello che “strumentalizza la politica ai fini del commercio cinematografico”. Per Rocha il cinema politico è essenzialmente e strutturalmente rivoluzionario, pur non essendo esso stesso la rivoluzione, visto che costituisce soltanto l’appendice teorica di un movimento che prima o poi deve confrontarsi con gli aspetti pratici. Per Rocha il cinema politico deve essere popolare, deve conquistare il pubblico e non sfruttarlo e deve essere soprattutto antisistema e anticommerciale, perché ogni film commerciale non fa altro che “contribuire ad alimentare l’alienazione delle masse”.
In questo contesto ideologico si colloca Il dio nero e il diavolo biondo, il primo dei film di Rocha dedicati al fenomeno del cangaço, per un dittico che egli stesso denominerà dei “film contadini”. Secondo lungometraggio del regista, Deus e o Diabo na Terra do Sol uscì nello stesso anno del golpe, il 1964. L’uscita nelle sale fu preceduta da due anteprime festivaliere europee, una a Cannes, che salvò il film dalla censura della dittatura, e una a Porretta Terme. Nella località emiliana fu accolto con entusiasmo allora – tra gli altri da Cesare Zavattini – e vi ritorna oggi, sessant’anni dopo (e due anni dopo la riproposizione sulla Croisette, nella sezione Cannes Classics), in occasione di una retrospettiva dedicata all’autore brasiliano. Il dio nero e il diavolo biondo racconta la storia del mandriano Manoel e di sua moglie Rosa, due poveri popolani del sertão costretti a fuggire sul Monte Santo dopo che l’uomo uccide un possidente locale a seguito dell’ennesima prevaricazione. I due si uniranno, dapprima, a una comunità di fedeli discepoli del monaco Sebastião, autoproclamatosi santo, poi alla banda di Corisco, un cangaceiro già seguace di Lampião, il più famoso esponente di quel movimento, ucciso dai militari qualche giorno prima (il che permette di localizzare temporalmente il film nel 1938). Sia Corisco che ovviamente Lampião sono personaggi realmente esistiti, tra i più famosi cangaceiros del sertão. Così come un fondamento storico hanno le vicende che riguardano il monaco Sebastião, richiamando il fenomeno del messianismo religioso-rivoluzionario che interessò quella zona soprattutto alla fine dell’Ottocento, quando si verificò la rivolta di Canudos, insediamento dello Stato di Bahia in cui si era formata una comune religiosa che rifiutava l’autorità della recentemente costituita Repubblica brasiliana, la quale reagì reprimendo militarmente l’insurrezione (la rivolta di Canudos è citata più volte nel film). Manoel e Rosa rappresentano quegli abitanti di quella regione (e di quel periodo) dapprima attirati dai santoni rivoluzionari e poi dai cangaceiros, i quali assunsero un ruolo e un rilievo quasi leggendari, guadagnandosi l’appoggio di una importante fetta della popolazione, stanca degli abusi dei grandi latifondisti. Parimenti leggendario è il ruolo che viene conferito da Rocha al personaggio di Antonio Das Mortes, “matador de cangaceiros” assoldato dalla Chiesa brasiliana e dai potenti locali inizialmente per liberarsi di Sebastião e della sua comunità, poi di Corisco e della sua banda. Antonio Das Mortes sarà il protagonista dell’omonimo secondo film dedicato dal regista di Bahia al cangaço e in questo dittico assumerà una connotazione peculiare e se vogliamo ambigua – non a caso Rocha e il Cinema Novo ricevettero costanti critiche sia da destra che da sinistra – di killer spietato ma morigerato e timorato di Dio, ritratto con metodi stilistici che lo avvicinano a un character da fumetto, per certi versi. Antonio Das Mortes è il castigatore di quei rivoluzionari che illudono il popolo e anche se costituisce di fatto il braccio armato della borghesia – va ricordato peraltro che in Brasile la “borghesia nazionale” è una borghesia medio-piccola, talvolta schierata contro l’imperialismo (almeno fintantoché contrastava gli interessi locali, da cui l’appellativo di borghesia “nazionale”) e che ha spesso appoggiato le forze progressiste e finanziato gli intellettuali, tra cui gli stessi esponenti del Cinema Novo – è un personaggio tutto sommato positivo, perché consente a Manoel, che in quanto popolano medio è egli stesso emblema del popolo brasiliano, di sottrarsi alle sirene di rivoluzioni sbagliate (e difatti, sia dopo la strage della comunità religiosa, sia dopo l’uccisione di Corisco, Antonio lascerà fuggire Manoel e Rosa, verso un destino che è però tutto da scrivere). Abbiamo dunque personaggi reali ma leggendari (i cangaceiros) e leggendari ma realistici (Sebastião, che è ispirato alla figura di Antônio Conselheiro, e Antonio Das Mortes, che ricorda Zé Rufino, il militare che uccise Corisco) che si mescolano secondo un approccio in parte documentaristico e in parte puramente finzionale, ma di quella finzione che pare una prosecuzione della verità (un concetto herzoghiano che forse il grande regista tedesco ha sviluppato anche grazie alla visione dei film di Rocha, che lo hanno ispirato altresì per questioni stilistiche, come si vedrà più oltre). La finzione come prosecuzione della realtà, dunque, un po’ come avviene per le leggende popolari, in cui la verità storica si mescola a elementi surreali o a vere e proprie mistificazioni, che si accrescono e si stratificano con la diffusione orale o scritta. Con la sua ambiguità, Antonio Das Mortes è un personaggio che sintetizza le contraddizioni di chi vive un certo fenomeno dall’esterno, in lui bilanciandosi costantemente le contrastanti pulsioni della repressione e della comprensione, che ancora oggi sono agli antipodi della visione politica del mondo.
Il dio nero e il diavolo biondo è strutturato in forma di ballata, con plurimi segmenti narrati attraverso le strofe di un cantastorie cieco, che ritornano regolarmente conferendo ritmo a una pellicola che sfiora le due ore di durata. La prima parte è quella in cui emerge maggiormente il debito di Rocha nei confronti del Neorealismo (ancor più accentuato nel suo primo lungometraggio, Barravento). Di quel movimento il regista – come farà in generale il Cinema Novo – riprende la vicinanza alle istanze popolari, pur distaccandosi – secondo una dichiarata finalità del Cinema Novo – da un’idea di cinema meramente antropologico, che era quello che sembrava interessare maggiormente il pubblico, soprattutto europeo, che si avvicinava alla cinematografia brasiliana (quando non era – più banalmente – alla ricerca di mere suggestioni esotiche). Rocha si discosta altresì dalle pulsioni che alcuni suoi connazionali avevano avuto, non più di un decennio prima, creando commistioni tra la cultura brasiliana e il gusto commerciale euro-americano (invero radicato nello stesso pubblico brasiliano): ciò era avvenuto mediante il fenomeno del nordestern, il western ambientato nel sertão. L’esempio più famoso, il film O Cangaceiro di Lima Barreto (1953), era incentrato proprio sul fenomeno del banditismo locale, reso però attraverso gli stilemi del western americano: una scelta che Rocha criticherà apertamente, nonostante il film di Barreto avesse fatto breccia in Europa (vinse il Prix International du film d’aventures a Cannes e venne accolto favorevolmente da intellettuali e critici di primo piano come Georges Sadoul). L’ispirazione tratta dalla cinematografia sovietica – ed ejzenstejniana in particolare – è invece evidente fin dai primi minuti della pellicola, con l’immagine del cranio di un animale in decomposizione che precede l’introduzione del protagonista Manoel, sancendo idealmente (in puro montaggio espressivo) l’accostamento tra bestie e uomini, tra vita e morte: i popolani del sertão sono vivi, ma sono già morti, sembra dirci Rocha, quando i titoli di testa ancora non si sono conclusi, togliendo fin dall’inizio qualunque proposito di ottimismo. Una totale disillusione emerge parimenti dall’introduzione della protagonista femminile, Rosa, che accoglie senza alcun entusiasmo e anzi nel completo mutismo e in totale apatia la notizia datale da Manoel, che ha appena incontrato il predicatore Sebastião: l’alienazione della donna è accentuatissima, mentre macina il grano pestandolo a mano nel mortaio, in un’immagine emblematica di quello che sarà uno dei pilastri teorici del Cinema Novo, l’estetica della fame. La sequenza in cui Manoel si reca al mercato cittadino, dove la sua già difficile esistenza si complicherà ulteriormente a seguito del delitto che lo trasformerà in un reietto anche davanti alla legge, è introdotta da una ballata decisamente movimentata, mentre la camera a mano segue il protagonista tra la folla. Siamo nel 1964 e le macchine da presa soltanto da pochi anni erano state sviluppate in modo da consentirne l’utilizzo agile che qui Rocha fa con totale disinvoltura, preconizzando un dinamismo che diventerà la regola. Una sequenza che peraltro suona vagamente familiare, nel suo svolgimento: lo stile scorsesiano (ante-litteram) ci ricorda quanti anche famosissimi cineasti sono stati (dichiaratamente) influenzati dal regista di Bahia. Un altro esempio di tali influenze lo si ha nella seconda metà del film, quando entra in scena Corisco, il “diavolo di Lampião”: in quel frangente sembra di assistere a un’anticipazione di quello che sarà l’Aguirre di Herzog, con la macchina a mano che si muove attorno al cangaceiro ritratto in primo piano (o al più in piano medio), alla stregua di una danza, di un incontro di boxe. Come ultima annotazione di questa opera straordinaria, che va annoverata a pieno titolo tra i film manifesto del Cinema Novo, va evidenziato come non siano soltanto le ballate del cantastorie cieco (che in parte si rifanno a canzoni tradizionali del Nordeste) a scandire il ritmo musicale del film, accompagnato invero anche da una colonna sonora originale particolarmente efficace, capace di sottolineare con la necessaria gravitas le molteplici scene madri.
Vincenzo Chieppa