4 Novembre 2024 -

U ARE THE UNIVERSE (2024)
di Pavlo Ostrikov

Basterebbe forse l’utilizzo intelligentissimo delle citazioni, per fare di U are the Universe uno dei film d’esordio più miracolosi degli ultimi anni. Con il computer di bordo parlante che proprio come l’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio non potrà che essere prima o poi per forza ‘traditore’ (in buona fede: è la razionalità del silicio che lo fa agire sempre e comunque per il successo della propria missione) e da disattivare, mentre non è certo un caso che sia proprio il Così parlò Zarathustra di Strauss a rompere ancora una volta, come in Kubrick ma questa volta facendone una (già amara, eppure spassosa) parodia, il silenzio assoluto dello Spazio profondo. Ma c’è anche il corpo celeste del quale usare rotondità e attrazione gravitazionale come trampolino per invertire la rotta come in Apollo 13, c’è anche il container-razzo da trasformare in improvvisato mezzo di trasporto proprio come in Interstellar, e a suo modo c’è pure la donna-fantasma già al centro del fantaumano prima tarkovskiano e poi soderberghiano di Solaris. Così come non mancano le fonti letterarie, in testa Robinson Crusoe come regalo di compleanno al solitario (astro)navigatore, oppure quelle musicali, rigorosamente stampate sulla materia tattile del vinile, che possono essere classiche e operistiche così come protese non a caso verso il synth-pop ‘spaziale’ di Voyage voyage di Desireless – «l’unico disco in francese che ho». Citazioni che, nel loro più o meno esplicito fare riferimento a capolavori (non solo) di fantascienza del passato, non sono in alcun modo un gioco metacinefilo e metaculturale fine a se stesso, ma al contrario rielaborazioni in tutt’altro contesto e spesso intrise di un umore nettamente opposto, che nel loro omaggiare apertamente il sublime (e al contempo nella necessità di staccarsi e anzi in qualche modo ribaltare le intuizioni con cui i grandi maestri hanno forgiato negli anni l’immaginario collettivo) suonano quasi come una dichiarazione programmatica d’intenti da parte dell’ucraino Pavlo Ostrikov, come la piena e totale consapevolezza della propria ambizione. Quella di realizzare un film, pensato e in larga parte girato prima dell’invasione del suo Paese, ma concluso in piena guerra con tanto di forzata ‘controfigura’ locale della voce francese di Alexia Depicker, che parte come una commedia anche scanzonata in cui ridere per sopravvivere nella tragedia, e che progressivamente aprirà sempre più al (melo)dramma fino a risolversi in un finale doloroso, struggente e poeticissimo, che riscoprirà definitivamente l’umano e il sentimento anche oltre la fine del mondo, anche oltre la gioia e la disperazione, anche oltre l’amore e le lacrime. Anche oltre la vita e la morte, che poi alla fin fine possono essere la stessa cosa, o per lo meno trovare il loro ultimo significato l’una nell’altra. Che senso avrebbe, del resto, ritrovarsi nello Spazio e sopravvivere all’improvvisa esplosione della Terra? Cosa comporterebbe per un uomo ritrovarsi solo, senza più affetti, senza più un posto dove tornare, senza più nulla? E per che cosa potrebbe essere disposto a rischiare e magari a sacrificare la propria vita? L’ultimo essere umano rimasto, da una parte guidato dallo spirito di sopravvivenza e dall’altro già certo della propria condanna alla solitudine e alla morte, che non può fare altro che aspettare che finiscano le energie e le provviste con cui sopravvivere ancora qualche mese prima di sprofondare nel buio eterno, o magari trovare un reale senso al suo essere ancora vivo. Una premessa che parte da un’intuizione narrativa tutto sommato semplice, ma che si stratifica sin da subito in domande esistenziali che si diramano infinite e profondissime, fino al contatto radio che svelerà al protagonista Andriy (e non necessariamente Andrukha) l’esistenza di un’altra sopravvissuta allo stesso modo condannata alla solitudine e all’attesa della morte, e di conseguenza al riaprirsi di altrettante domande esistenziali uguali e opposte, e alla scelta – forse realmente folle, ma del resto cos’altro gli è rimasto da fare? – di tentare di raggiungerla. Con la consapevolezza dell’impossibilità di fare realmente ripartire l’umanità ma con il cuore che gli batte ormai in maniera differente, inebriato dall’innamoramento, nuovamente acceso di sentimenti, di umanità, di speranza. Di plastilina, forse. Con cui forgiare un volto e poi un simbolo, con cui immaginare ciò che non si può vedere ma che diventa l’unico motivo per continuare a vivere e forse pure per morire, con cui aprire uno zaino, staccare volontariamente l’ultimo cavo e definitivamente volare via nell’eterno e nell’infinito, per sempre insieme ben oltre le riserve di ossigeno.

Nulla appare in effetti casuale, nella straordinaria sceneggiatura di U are the Universe. Dal motivo del lungo viaggio interplanetario del protagonista, ovvero scaricare su una luna di Giove proprio le scorie nucleari che non si sa più dove stoccare sulla Terra, all’etichetta del vinile dei Notturni di Chopin che diventa lentamente l’ultimo sguardo sul Pianeta Azzurro prima che l’uomo definitivamente completi la sua opera di distruzione, con l’esplosione del corpo celeste in un abbacinante bagliore di luce e con l’urgente necessità di ripararsi dietro a Callisto per evitarne le schegge. Ma anche dai paradossi dell’intelligenza artificiale del computer-robot di bordo che, fra una barzelletta fuori luogo e un freddo calcolo ingegneristico, non capisce il silenzio costernato del protagonista appena rimasto l’ultimo uomo dopo l’estinzione della specie, né per quale motivo rischiare anticipatamente la vita per non morire solo, alle tre ore che impiegheranno i messaggi vocali con la sopravvissuta Catherine per giungere da una casella vocale all’altra a settecento milioni di chilometri di distanza. Oppure dal pensiero di salvare (seppur temporaneamente) una vita come ultima buona azione dopo la (letterale) fine del mondo, alla disperata dichiarazione d’amore quando sembra che l’esplosione del reattore non gli consenta in alcun modo, proprio in vista del traguardo, di terminare il viaggio. Passando, inevitabilmente, per un soprannome che non potrà che essere rivelatore di una menzogna, e quindi per l’ennesimo dettaglio apparentemente insignificante che sarà invece destinato a crescere e a propagarsi come gli anelli di un sasso nell’acqua (o di Saturno…), come una crepa in un muro (o per meglio dire nei motori esterni di un’astronave/camion), come il continuo e progressivo cambio di genere, di tono e di atmosfera di un film che parte dalla distopia esistenziale per sorvolare una (possibile/impossibile) commedia romantica e poi il melodramma e il falso disvelamento di un mistero, fino al ritorno della creatività e alla più intima confessione dei propri irrisolti, fino a un disco mai ascoltato che viene messo sul piatto e a intere giornate passate a piangere, fino alla tragedia ma soprattutto a una commozione pura, lirica, spontanea, dolcissima, catartica. Sublime. Un viaggio nella vita e nella morte che, nella complessità delle riflessioni a cui incessantemente forza il proprio protagonista, cerca il senso più profondo della vita e della morte nella solitudine e nella perdita, nella sincerità e nell’inganno, nella speranza e nel sacrificio, nell’emozione e nell’amore. Ma pure nell’arte, che per definizione, quasi intrinsecamente, non può che nascere da una sofferenza che deflagra in una sempre nuova urgenza espressiva. Un’arte, come si diceva, apertamente citata da Ostrikov fra omaggi cinefili e ben calibrati riferimenti letterari e musicali, ma che è anche quella con cui passa i giorni il protagonista (affidato al talentuosissimo Volodymyr Kravchuk, semplicemente straordinario nel portarsi letteralmente l’intero film sulle spalle, sulla voce e sul corpo) forgiando con le proprie mani quel volto di cui innamorarsi, guidato sì da una voce lontana tradotta in tempo reale da un auricolare hi-tech, ma soprattutto dal proprio sognare, dalla fantasia, dai sentimenti, dall’ultimo residuo bruciare dell’umano dopo l’Apocalisse. Presentato poco più di un mese fa a Toronto e adesso in prima italiana (e meritatissimo vincitore di più o meno tutto quello che poteva vincere, dal Premio Asteroide al Premio del Pubblico passando per il premio tecnico attribuito dall’Istituti Italiano di Astrofisica) al Trieste Science+Fiction Festival 2024, il crepitante U are the Universe lo mette in scena a costo relativamente basso all’interno della sua navicella perfettamente attrezzata con palestre e zone relax, ma sa utilizzare il budget per essere perfettamente credibile anche nei pur rari momenti-cardine delle sue sortite nello Spazio, quando c’è da controllare un motore (effettivamente mezzo rotto, ma è meglio non dirlo al computer di bordo) e soprattutto quando ci sono da percorrere gli ultimissimi metri e a questo punto poco importa arrivare vivi o morti: quello che conta è la meta, quello che conta è il corpo, quello che conta è l’anima. Quello che conta è lei, la musa, l’amore (im)possibile, la scintilla dell’eroismo, l’unico senso rimasto dell’intero universo. Quello che conta è il primo, ultimo, eterno sfiorarsi dopo essersi così a lungo cercati. Un’appartenenza più forte dei lutti passati e presenti, come una danza immutabile fra le stelle e i pianeti. Così lontani, così vicini. Così provvisori, così definitivi. Così tristi, così toccanti. Forse per la prima volta, proprio in punto di morte, davvero vivi.

Marco Romagna

“U Are the Universe” (2024)
90 min | Comedy | Ukraine
Regista Pavlo Ostrikov
Sceneggiatori Pavlo Ostrikov
Attori principali Alexia Depicker, Volodymyr Kravchuk
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

L'ORTO AMERICANO (2024), di Pupi Avati di Marco Romagna
QUEER (2024), di Luca Guadagnino di Marco Romagna
SCHIRKOA: IN LIES WE TRUST (2024), di Ishan Shukla di Marco Romagna
HOMEGROWN (2024), di Michael Premo di Donato D'Elia
BABY INVASION (2024), di Harmony Korine di Nicola Settis
FLOW (2024), di Gints Zilbalodis di Marco Romagna