Può abbastanza tranquillamente riplasmarsi nel live action, l’immaginario cinematografico di Jérémy Clapin già apprezzato a livello globale nel 2019 per Dov’è il mio corpo?, magnifico debutto sulla lunga distanza giunto, dopo una carriera quasi ventennale di cortometraggi animati, fino alla cinquina d’animazione degli Oscar 2020 dove venne sconfitto solo da Toy Story 4. Eppure, anche in questo Pendant ce temps sur Terre (o se si preferisce Meanwhile on Earth, come da titolo internazionale) con cui il regista francese di fatto ri-esordisce nel lungometraggio questa volta in carne e ossa, non è certo un caso che nei momenti in cui entrano in campo i ricordi, i sogni e i desideri più profondi, le immagini riprese dal vero non possano che sconfinare ancora una volta nel disegno animato, l’unico realmente senza limiti, l’unico che permette, semplicemente immaginando e poi schizzandolo, di oltrepassare ogni linea di demarcazione fra il possibile e l’impossibile. Lo stesso motivo per il quale, già nel commovente lavoro precedente, i flashback con il loro bianco e nero si staccavano anche graficamente dalle saturazioni della narrazione “al presente” alla ricerca di ciò che era stato e di ciò che forse sarebbe potuto essere, ma che il crudele destino aveva impedito per sempre di realizzare, e lo stesso motivo per cui non è certo un caso che Elsa, protagonista di questa seconda-opera-prima che Clapin affida al volto e al corpo di Megan Northam, parallelamente al suo lavoro nella casa di riposo aspiri a diventare fumettista e si fermi a disegnare sul suo taccuino ogni incontro e situazione della sua vita, immaginando poi di poterli raccontare a quel fratello cosmonauta ormai da anni disperso nello Spazio e ora pubblicamente ricordato da una statua in mezzo alla rotatoria principale del paese. Del resto è proprio l’impossibile il punto centrale (anche) di Pendant ce temps sur Terre, già lo scorso febbraio in anteprima nella sezione Panorama della Berlinale e ora presentato in prima italiana al Trieste Science+Fiction Festival 2024. Un film che si inoltra nei territori della fantascienza e rilegge in maniera personalissima L’invasione degli Ultracorpi per trovare un proprio punto di vista originale non tanto sul lutto, quanto sull’impossibilità di accettarlo e di superarlo, su come possa non esistere alcun modo per farsene una ragione. Attraverso sì un seme nell’orecchio che germoglierà nel cervello della protagonista come collegamento telepatico con una misteriosa voce aliena, e attraverso sì cinque anime extraterrestri che cercano altrettanti corpi nei quali incarnarsi su questo pianeta promettendo in cambio il ritorno del caro estinto (o per lo meno scomparso nell’immensità senza altra possibilità di ritorno). Ma soprattutto attraverso una parabola umana, familiare e morale dalla metafora chiara e dolorosissima, che passa per la ridiscussione di ogni etica e per il fine che giustifica i mezzi – «Non tutte le vite hanno lo stesso valore», verrà detto apertamente – per giungere fino al ritorno della pietà e al più estremo sacrificio, e poi all’amarezza di un finale che può essere un sogno o forse l’unica realtà che rimane dopo un lungo sogno irrealizzabile e irrealizzato. Un sogno, in ogni caso, di sofferenza e di martirio, di incertezza e di (vana) speranza, di lacrime e (letteralmente) di sangue. Un sogno, in ogni caso, di vita e di morte, di illusione e di amarezza, di utilità e di inutilità. Un sogno, in ogni caso, utopistico, chimerico, irrealizzabile. Un sogno impossibile, appunto, proprio come vedersi di nuovo insieme, alieni con tanto di antenne, in un disegno animato.
È ancora una volta la perdita, il punto da cui parte Jérémy Clapin. Una perdita che, a differenza che in Dov’è il mio corpo? non è più (solo) fisica, ma in qualche modo molto più profonda, cerebrale, sentimentale. Perfino identitaria. Come se Elsa, con il mancato ritorno del fratello dalla missione spaziale di tre anni prima, avesse perso anche e forse soprattutto se stessa, le proprie coordinate, i propri punti di riferimento. Perfino la propria morale, in un sostanziale egocentrismo del dolore in cui essere disposta a sacrificare più vite per averne una cara in cambio. È per questo che, nell’aperta finzione di genere in cui Pendant ce temps sur Terre innesta la sua parabola emotiva, tutto potrebbe perfettamente essere (pseudo)reale e tutto potrebbe perfettamente essere immaginato e vivo solo nella sua testa: il senso di ciò che le accade rimarrebbe il medesimo. Il suo è un viaggio nelle più estreme e impensabili conseguenze della malinconia, nella fiducia che si è disposti a concedere a un’utopia, nel prezzo che si è (o per lo meno si sarebbe) disposti a pagare pur di far tornare in vita quel vuoto impossibile non solo da riempire ma anche da accettare. Un viaggio nel quale ritrovarsi costretta a stimare il prezzo di una vita – quella di un fratello che manca come l’aria, quella di un boscaiolo stupratore, quella di un anziano in ogni caso moribondo, quella di un ragazzo come tanti, perfino la propria – e apertamente forzare il proprio libero arbitrio in una corsa contro il tempo e contro l’etica, contro la paura e contro il senso di colpa, contro la disperazione e contro la necessità di rassegnarsi all’evidenza. Un viaggio nel dramma e nell’angoscia ma al contempo un viaggio toccante nell’anima e in un soprannaturale che sconfina apertamente nel mistico, in cui addentrarsi dolorosamente fino al cuore più profondo delle proprie vulnerabilità e dei propri dilemmi. Un viaggio che Clapin, autore anche della sceneggiatura, fa partire dall’audio dell’ultima telefonata della protagonista con il fratello mentre l’interno della capsula spaziale, già vuota, sin da subito minacciosamente si allontana, e che porta avanti fra bombolette di vernice verde, semi luminosi, possessioni auditive e ultracorpi apparentemente innocui, non belligeranti o comunque non pericolosamente intenzionati a distruggere la Terra tanto che quando uno alla volta iniziano a incarnarsi semplicemente spariscono dalla narrazione, perché evidentemente non sono loro né in generale la pur perfettamente funzionale cornice fantascientifica, il punto a cui tende Pendant ce temps sur Terre. Dare loro una fiducia (ancora una volta) impossibile è semplicemente un passaggio necessario, il punto di innesco con il quale portare il dramma personale di una ragazza, ma in generale di un’intera famiglia incapace di superare il dolore, verso i territori del fantastico; territori dai quali spingersi ancora più a fondo nella mancata e forse semplicemente impossibile elaborazione del suo lutto, dai quali metterla ripetutamente alla prova, dai quali costringerla a ripensare in poco più di un battito di ciglia l’intero senso dell’esistenza.
Importa quindi solo relativamente, a questo punto, che in Pendant ce temps sur Terre forse a livello narrativo possa non tornare proprio tutto, con il film che finisce anche per scoprire il fianco a qualche momento a grana forse un po’ troppo grossa (su tutti l’improvviso e forzato tentativo di stupro con cui fornire più o meno inavvertitamente la prima vittima alla protagonista proprio nel punto del bosco stimato per le consegne e dare così inizio al suo patto con le anime, unica scena che suona realmente stonata in un film ben più d’atmosfera che d’azione, forte di una messinscena tendenzialmente minimale e con più d’una punta elegiaca) o che la sua struttura narrativa, per sinossi, alla lunga non possa che farsi un filo ripetitiva, con il ripensamento e la forzata corsa del prefinale che, forse, più ancora di una reale conclusione, sembrano piuttosto l’ennesima e in qualche modo inevitabile, scontata, variazione sul tema. Così come conta solo relativamente che, sempre a livello meramente narrativo, il sostanziale accanimento delle continue e incredibili botte di sfiga che, una dopo l’altra e del tutto immeritate, falcidiano il già complicatissimo percorso della protagonista, possa qua e là incrinare qualcosa nella sospensione dell’incredulità. Al massimo si tratta di elementi per i quali ammettere come possa anche essere vero che il (quasi tutto) live action Pendant ce temps sur Terre non riesce a raggiungere, ma forse vista la natura completamente differente dell’operazione nemmeno lo vuole, le straordinarie vette raggiunte in animazione dal lavoro precedente. Eppure sarebbe semplicemente delittuoso negarne l’interesse e la riuscita complessiva. Un film che riporta in tutt’altra veste (e con molto meno tempo necessario per realizzarlo, e con chiaramente minori costi di produzione) all’interno dell’immaginario di Clapin, e che ancora una volta affronta la perdita e la mancanza giocando apertamente con i generi cinematografici fra la fantascienza e il melodramma introspettivo-familiare, passando consapevolmente per l’angoscia del body horror, per il potenziale onirico e poetico dell’animazione, per la contemplazione della Natura da qualche parte fra l’estasi e la malinconia più devastante, e poi per i pedinamenti a mano nella foresta, per gli sguardi al cielo d’angoscia e di speranza, per un contatto mai reciso e imprescindibile. Per il meno accomodante fra i dilemmi etici, andando dritto al punto e affrontandolo di petto da una prospettiva intima e dolorosissima, angosciata e insanabile. Apertamente impossibile, come impossibile può essere (solo) l’accettazione di un addio rimasto per sempre fra le labbra.
Marco Romagna