Questa volta, complice l’inflazione che dal 1990 di Pretty woman ha drasticamente abbassato il potere d’acquisto di qualsiasi valuta compresa quella statunitense, sono ben 15mila i dollari che il ricchissimo cliente offre alla protagonista per essere la sua fidanzata per un’intera settimana. Non, a differenza della Vivian che al tempo lanciò definitivamente l’astro nascente dell’allora ventitreenne Julia Roberts, una prostituta da strada, ma una grintosa e bellissima ballerina di lap dance che allo stesso modo utilizza consapevolmente il proprio corpo come merce di scambio e di sopravvivenza, e che allo stesso modo incarna una novella Cenerentola che dal frigo vuoto in un appartamento nei quartieri più malfamati della città vedrà all’improvviso spalancarsi le porte della reggia del Principe Azzurro. Non, questa volta, il ricco imprenditore di mezza età interpretato da Richard Gere, ma il coetaneo rampollo di un oligarca russo, immaturo e viziato ma sinceramente invaghito, con il quale scatta una reciproca e irrefrenabile attrazione senza ancora sapere che (e quanto schifosamente) fosse ricco – «Questo non si potrebbe fare, ma tu mi piaci!», gli sussurrerà all’orecchio già nel night sfilandosi il perizoma, prima di lasciargli il numero e accettare l’invito a casa per fare sesso. Eppure Anora, sfrenata rom-com con cui Sean Baker in qualche modo tira le fila della sua precedente filmografia (il sogno di andare in viaggio di nozze nella Disneyland già di The Florida Project, l’industria del sesso già al centro, fra prostituzione e pornografia, dei vari Starlet, Tangerine e Red Rocket, le differenze di classe già di Take Out e Prince of Broadway, ma anche la commedia pura dell’esordio Four Letter Words che si riaffaccia dopo una lunga fase prevalentemente drammatica), non vuole ripercorrere la fiaba d’amore e la scalata sociale di Pretty Woman, ma sembra semmai volersi porre come controcampo del film di Garry Marshall che parte da simili premesse (e per quasi metà film le segue, fino al matrimonio e a «due settimane» felici e contenti con un diamante al dito grosso come una noce incorniciato dalla pelliccia di zibello) per poi ribaltarle, perché (anche in un film) la vita non è (più) un film, perché nelle derive della contemporaneità non può bastare un matrimonio a Las Vegas per abbattere i muri fra chi è ricco e (pre)potente e chi è povero e di fatto privo di diritti.
Anzi, sarà proprio la contrapposizione fra la dignità dei meno abbienti e la crudeltà onnipotente del Capitale a diventare il fulcro del discorso di Anora, perfettamente scisso fra una prima parte di sogno e una seconda di incubo (o per meglio dire di parodia di un incubo, fra l’inettitudine dei gangster e la fantozziana reverenza che devono all’oligarca e alla sua glaciale moglie), con in mezzo la sequenza-chiave dell’assalto degli sgherri inviati dai genitori del rampollo alla casa da sogno dei due sposini, in cui la sorprendente Mikey Madison su cui Baker letteralmente cuce il film, già assaltatrice della Manson family finita arrosto sotto il lanciafiamme di DiCaprio in Once upon a time… in Hollywood e poi fra i Ghostface del quinto Scream, viene questa volta sì assaltata, legata e imbavagliata, ma solo dopo essere stata in grado di picchiare tutti e tre gli assalitori. È quindi un discorso prima di tutto sociale e anticapitalista, quello di Anora, che Sean Baker, girando questa volta in 35mm dopo i 16 (quando non addirittura gli iPhone 5S) del passato, lascia sospeso fra la disillusione e la malizia, fra l’ingenuità (di lei) e il capriccio (di lui), fra l’inadeguatezza (altrui) e l’autodeterminazione, fra il sussulto erotico e l’inaspettato romanticismo, fra un tiro di bong e la Playstation, fra la ricchezza e la totale coglionaggine del ragazzino, mentre soltanto nel finale fra differenti schiavi altrettanto lontani dai vertici della piramide ci sarà spazio per il ritorno dell’umano, della sincerità emotiva, della passione disperata, forse di un sentimento un po’ meno impossibile di quello sognato, accarezzato e strappato via. Come a dire che non c’è alcuna vergogna nel guadagnarsi, citando De André, “il pane da nude”, come fa la protagonista Anora che preferisce farsi chiamare Ani perché in America non c’è tempo per prestare attenzione ai significati dei nomi ma quasi al contrario è molto più utile tentare di nascondere la propria origine uzbeka mentre per stato di necessità esercita un lavoro al confine con la prostituzione, e non c’è alcuna vergogna nemmeno nel dover fare il gangster al servizio di chi in realtà si disprezza, purché lo si serva senza mai perdere la propria gentilezza d’animo e la propria capacità di attenzione nei confronti del prossimo. Semmai, la volgarità e l’erosione dell’integrità morale sono da ricercarsi esattamente al polo opposto, quello dei soldi, quello del Sistema economico e di potere, quello degli atteggiamenti sprezzanti e nelle minacce pseudo-mafiose di chi se le può permettere, e che manda scagnozzi a distruggere l’idillio per poi piombare personalmente come un bulldozer da Mosca a imporre l’annullamento del matrimonio al figlio, a sua volta del tutto incapace di ribellarsi ma solo di vivere i propri capricci da ragazzino che pensa di poter avere tutto, senza minimamente curarsi di chi finirà schiacciato dal suo avanzare.
Un assunto, dimostrato peraltro scoprendo il fianco a qualche nemmeno troppo vago sentore di razzismo russofobo che probabilmente in tempi pre-guerra in Ucraina sarebbe stato accolto con più rumore (solo la famiglia dei “cattivi” senza possibilità d’appello è russa, mentre l’americana Anora parla la lingua perché come si diceva di nonna uzbeka e gli sgherri che a lungo andare si scopriranno di fatto schiavizzati dai padroni, se non proprio l’unico ancora capace di premura, sono in realtà armeni), con cui Sean Baker non ha l’ambizione di arrivare chissà dove o di dire chissà che cosa di rivoluzionario, ma semplicemente di restare, in piena coerenza con il suo (per chi scrive sempre interessante e mai del tutto disprezzabile, ma mai realmente eccelso) percorso autoriale, ancorato ai territori a lui più congeniali dell’indie americano, delle storture sociali-capitalistiche e del corpo come moneta su cui da sempre concentra l’occhio della sua macchina da presa. Con l’unica differenza rispetto al passato che, questa volta, si propone di fare apertamente ridere, attraverso continue pennellate di una verve comica ora effettivamente brillante e ora – va detto – un po’ meno efficace, che fa risultare Anora tutto sommato godibile e divertente seppure alla lunga un po’ afflosciato da un minutaggio con ogni probabilità eccessivo, che nel suo stiracchiarsi verso le due ore e venti quando con ogni probabilità 100 minuti sarebbero stati più che sufficienti finisce per far perdere smalto al film con qualche ripetitività che, almeno a tratti, depotenzia la seconda parte. Prima fra una ricerca e l’altra dello sposo fuggiasco, in cui le gag finiscono sempre più per assomigliarsi mentre il procedere si fa un po’ schematico, e poi nel trasportarlo di peso totalmente ubriaco, e in ogni caso privo di un libero arbitrio che non ha mai realmente avuto, da New York al Nevada e infine all’addio. Eppure non è per queste cadute di tono, e nemmeno per la sostanziale prevedibilità di tutte e due le parti dell’intreccio compreso il disvelarsi emotivo nascosto sotto i muscoli del “brutto ceffo” Ivan, che la Palma d’Oro generosamente tributata ad Anora dalla giuria presieduta da Greta Gerwig all’ultimo Festival di Cannes potrebbe paradossalmente fare più male che bene al film di Sean Baker. Per quanto, ovviamente, non sia in alcun modo “colpa” del film o del suo autore il fatto che Anora, in questi giorni in anteprima alla 19ma Festa del Cinema di Roma poche settimane prima dell’uscita in sala in Italia, abbia vinto probabilmente al di là dei suoi reali meriti contro i vari (e tutti oggettivamente ben più ambiziosi, anche senza volersi addentrare nei singoli giudizi di merito) Bird, Megalopolis, Grand Tour, Emilia Pérez e The Shrouds, ma pure Caught by the tides, The Substance, Parthenope e Oh, Canada. La Palma d’Oro potrebbe fare più male che bene ad Anora perché è inevitabile che alimenti le aspettative del pubblico, portandolo alla ricerca di qualcosa che, semplicemente, nel film di Baker non c’è perché non è mai stato intenzione dell’autore mettercelo. Un film che è tutto fuorché brutto, e anzi spassoso, scatenato, ottimo per una serata di svago, ma in definitiva un filmetto se non proprio sterile e banalotto per lo meno con poco da dire, lontano anni luce da quello che sarebbe lecito aspettarsi da un vincitore di Cannes. Poi sì, è vero anche che il concorso di un Festival è in sostanza un gioco, e che la composizione di un palmarès è spesso figlia di incastri e compromessi, come pure è vero che negli ultimi anni si sono visti uscire con l’alloro principale in mano (specialmente da Berlino, ma anche da Venezia e seppure in misura minore dalla Croisette) film e idee di cinema decisamente più respingenti di quella di Baker, del quale rimane una straordinaria protagonista che si dona – letteralmente – anima e corpo, rimane l’indubbio afflato sociale, e rimangono almeno una manciata di intuizioni e di battute fulminanti. Probabilmente nessuna Palma, però, seppur graziosa e divertente quanto si vuole, era mai stata in definitiva così innocua, poco coraggiosa, adagiata nel solco di quella che è ormai da tempo una prassi. Forse nemmeno intenzionata a lasciare reali tracce dietro di sé, e comunque non in grado di farlo.
Marco Romagna