La commedia romantica è un genere che va sempre in voga dacché il cinema esiste, e in questi tempi recenti chiunque vi si avvicini, che sia un autore stagionato o un giovane esordiente, finisce per fare film stralunati e apocalittici. Paul & Paulette take a bath di Jethro Massey non fa eccezione, e costituisce un colorato ma mortuario contributo al genere che più di tutti riesce a riunire casalinghe e cinefili incalliti in lacrime e risate. Il regista, al suo esordio al lungometraggio (presentato a Venezia 2024 nell’ottima selezione ufficiale della Settimana Internazionale della Critica), è franco-britannico, e la Parigi in cui ambienta il film è perlopiù anglofona, internazionale. Con una fotografia ipersatura che mostra la capitale francese a volte grigia come Londra e a volte vivace come Barcellona, l’archetipo parigino romantico sfuma nel sottofondo di una storia d’amore tra due persone simili quasi solo per nome, una relazione immaginaria in un luogo immaginario. La città può essere luminosa e macabra, perché è entrambe le cose, se usiamo la nostra immaginazione. È questa anche l’esperienza dei protagonisti, Paul e Paulette, entrambi giovani disperati, lui che ha trovato una sicurezza economica in un lavoro stabile che detesta, che si può reputare “arrivato” ma vorrebbe essere un fotografo, e lei sempre senza casa e senza ambizioni, che salta da uomo a uomo per delle avventurine ma è sempre col cuore fedele a Margherita, il suo primo amore femminile. Entrambi, sempre a metà tra star bene e star male, vedono Parigi più come un luogo del passato, della memoria, che come la città in cui abitano. Si aggirano tra monumenti storici, musei e altri luoghi significativi per ripensare e rimettere in scena momenti tra i più lugubri della Storia francese, fino a quando il macabro diventa un gioco, quasi un feticismo. E il loro rapporto, inevitabilmente, diventa un fantasma, delle persone di cui parlano e di ogni momento, di ogni gesto che svanisce e muore appena finisce. Già dalle prime note angoscianti di sintetizzatore sui titoli di testa color pastello, Paul & Paulette è interessante per la sua intrinseca disperazione mascherata, per come sottolinea quello che non si vede in ogni inquadratura. La trasformazione che subisce Parigi nel corso del film è notevole, anche pensando che siamo in un anno in cui il Leone d’Oro l’ha vinto un film come La stanza accanto in cui Almodóvar riprende New York come se fosse Madrid, ma non è la sola cosa, soprattutto considerando che il “bagno” del titolo (e di fatto un terzo del film) avviene fuori dalla città più fotografata d’Europa, durante un viaggio.
Da una parte la misteriosa Paulette, una sbandata col cuore al posto giusto ma troppo distratta per essere affidabile, ossessionata dal cercare e ricercare manifestazioni lugubri di sé – inscenando parzialmente la decapitazione di Maria Antonietta su se stessa (testa tagliata a parte, naturalmente) o mangiando limoni a morsi, o ancora mettendosi in posa come una statua: ogni cosa per lei è curiosità o imitazione. Dall’altra il timido Paul, che si veste bene per il primo giorno di lavoro, in preda alla sindrome dell’impostore, con in tasca ancora i capelli tagliati a lei nel rituale di messa in scena. Con la succitata Margherita diventa un triangolo amoroso, e poi un quadrilatero con l’entrata in scena di Valerie (in ufficio soprannominata Goebbles), la capa di Paul. La quotidianità è troppo triviale, ma il loro rapporto è magicamente unito dalla passione della rimessa in scena del macabro, che per lui soprattutto diventa sempre più seria fino a essere un’ossessione. Del resto, questo gioco dentro il gioco non è altro che il “genere” del loro rituale di seduzione malato. La relazione, difatti, come molte relazioni “reali”, rimane sempre immaginaria, anche quando si concretizza sul piano fisico. È tutto etereo, privo di soluzione di continuità, un gesto vuoto costante, a volte vero e a volte semplicemente falso. Il bagno centrale al titolo del film è il momento delle confessioni, in cui i segreti si svelano e comincia a finire l’incantesimo; il momento chiave di queste relazioni idealizzate, frammentarie, di vita estetica. Ogni divertimento si scioglie sempre più velocemente dopo che sono svelati gli altarini delle verità rimosse nel tempo. E quando le verità escono fuori, anche le persone sembrano più banali. Tanto che alla fine queste storie effimere, meravigliose ma inconsistenti, svaniranno, mentre quella strana Storia così lontana che le circonda sempre riesce a rimanere… L’eterno ritorno a quando essere persone semplici diventa essere persone inette, autodistruttive, menzognere, depresse. Nella parabola di cambiamento del personaggio di Paul, fuori campo e in campo allo stesso tempo, avviene un accoppiamento invisibile con la follia, col simulacro, col riflesso (magari doppio sugli specchi della sua reflex) di Paulette. Il desiderio diventa patetico, il non-sentimento diventa amarezza. Fuori da Parigi il film è più romantico, meno disperato, ma tratta ogni momento come un sogno, ed è l’unica sezione (necessaria, per superare lo stereotipo della donna folle e idealizzata da stilnovisti onnipresente nei canoni del genere romantico) in cui i due, Paul e Paulette, l’inetto artistoide e la musa eccentrica, si guardano davvero, si parlano davvero, si conoscono davvero. E scoprono di essere frustrati e banali.
Al Lido si sente qualcuno menzionare i film di Rohmer nella stessa frase di questo film, ma è un’assunzione sbagliata basata su idee meramente geografiche e nazionali da superare. Il cinema di Rohmer, come quello di altri suoi contemporanei che hanno voluto approfondire la messinscena (o meglio: la messa-in-film) del sentimento (Rivette, Varda, Demy, Eustache…), si manifesta nel rigore dietro i singoli gesti e momenti, la non-storia che si fa storia (e soprattutto, che si fa solenne, che si fa cinema) tramite un’essenzialità, una forma severa. Rohmer sapeva che in questi dialoghi si manifesta un niente che può catturare l’attenzione, un vuoto, e attorno a questo vuoto, progredendo col dono della parola nello spazio invisibile tra le inquadrature, spostava di minuto in minuto l’attenzione dello spettatore immergendolo nell’interazione. Massey è invece un cineasta decisamente più postmoderno, e in questo specifico paragone con uno dei più grandi non può che essere inteso come un limite. Paul & Paulette è prosciugato di sensibilità, figlio dello zeitgeist e spesso troppo conformato a una bellezza canonica di un certo cinema contemporaneo (che, tra amici, potremmo sfottere col termine ‘mubi-core’), ma la macchina da presa si prende spesso la libertà di viaggiare come di propria spontanea volontà, anche fermandosi, come sul finale in cui controintuitivamente rimane lontana dai personaggi invece di concederci una chiarezza sui loro volti. I due protagonisti sembrano gli unici veri esseri umani al mondo, ma non sono estetizzati, sono belli e brutti, simpatici e antipatici, buoni e cattivi. Veri e falsi, come una stanza d’albergo, o come una reliquia comprata su Internet, come l’illusione e l’imbarazzo. Dopo la visione, pensando al film non si ricordano tanto lo sguardo e il pensiero alla base delle immagini, quanto proprio loro due – la scrittura di Paul e Paulette, il loro rapporto grottesco ma realistico, la loro umanità fragile e(ppur) coloratissima. L’idea che anch’essi adesso sono a modo loro fantasmi parigini. Il che non è Rohmer, e nemmeno Kechiche. Ma in definitiva, al di là di paragoni impropri e giocoforza ingenerosi per un’opera prima contemporanea, permette di accontentarsi piuttosto volentieri.
Nicola Settis