Pedro Almodóvar approda in America. Attrici hollywoodiane, trama che va avanti e indietro con la Storia statunitense abbracciando la guerra in Vietnam come quella in Iraq come la pandemia del Covid, con immagini che sembrano quadri di Wyeth, citazioni dirette di Faulkner, in un potpourri di tributi alla grandezza di ciò che l’arte, la letteratura, la cultura hanno dato all’uomo per comprendere cos’è la morte, davvero. Tutti ci crediamo immortali, tutti abbiamo un’illusione di controllo. Le protagoniste del primo film anglofono di Almodóvar sono due donne agiate intellettuali, l’una lo specchio dell’altra: la prima (Julianne Moore) è spettatrice e testimone, guarda e ascolta, è una scrittrice che si fa trascinare dagli eventi proprio come il regista spagnolo; la seconda (Tilda Swinton) invece un personaggio-vita che parla e rappresenta la morte, esiste e respira attraverso i propri ricordi, non fa altro che raccontare se stessa, il vissuto, il Sé (la propria psicologia, biografia, la propria cultura – musica, letteratura, cinema – che si intreccia con l’esperienza, sullo stesso livello). Almodóvar è uno di quei registi/autori, come Ingmar Bergman prima o Woody Allen poi, che lavora ipertroficamente sulle sceneggiature, costruisce le trame in base a lunghi accatastarsi di idee, come aprendo un taccuino di appunti e creando le scene che strutturano la sua trama con una libera (ma (auto)controllata) associazione di idee. E infatti la sua New York è madrilena, i suoi paesaggi americani sono paesaggi dell’anima, e la sua penna contorna i personaggi non attorno all’identità nazionale bensì attorno al loro ruolo esistenziale. Del resto The Room Next Door – nella versione italiana semplicemente La stanza accanto – è in modo palese un dramma borghese sull’accettazione della morte. La trama: Ingrid (Moore), scrittrice di romanzi perlopiù per un pubblico di lettrici femminili, scopre che una sua amica di gioventù, Martha (Swinton), un’ex-reporter di guerra, sta morendo di cancro. La va a trovare in ospedale, così riaccendendo la miccia di un’amicizia svanita nel tempo, al punto da diventare la sua più fidata fonte di sostegno. Un giorno Martha ha una proposta, che Ingrid diventi la sua amica nella “room next door” per un mesetto di vacanza isolate dalla civiltà, giorni in cui quasi senza preavviso Martha prenderà una pillola per l’eutanasia presa sul deep web per suicidarsi. Martha ha bisogno di essere “accompagnata in guerra”, nella sua ultima piccola guerra, come nei suoi reportage che non ha mai fatto da sola. Deve essere in compagnia durante la morte, per finire la vita senza brutalità, coccolata dal destino. Ingrid, terrorizzata dalla morte e dalle conseguenze di questo accordo, dice di sì, e si trasferisce con la sua amica per un mese in una villetta ad affitto, in costante tensione verso le eventuali responsabilità nei confronti di Martha.
Tilda Swinton era già protagonista de La voce umana, primo di due esperimenti di Almodóvar con la lingua inglese (il secondo, migliore, più personale, è Strange Way of Life, western sponsorizzato da YSL con Pedro Pascal e Ethan Hawke) e adattamento di un monologo teatrale da cui Almodóvar era ossessionato già ai tempi di La ley del deseo, mentre Julianne Moore è un’attrice haynesiana, un volto sovrainterpretabile, riconoscibile, universale, vuoto e pieno. La tensione tra le due, in costante dialogo per la maggior parte del film, crea un riflesso: l’Io e l’Altro, il raziocinio e il sentimento, il presente e il futuro. Interrogandosi in ogni scena sulla morte, che le due protagoniste si trovino di fronte a uno schermo che mostra un film di Buster Keaton o che si ritrovino a citare Gente di Dublino di Joyce (e di John Huston), Almodóvar costruisce un film senile che ne è iperconsapevole, nelle sue derive ipocondriache, apocalittiche. Il cambiamento climatico, l’ascesa della destra, ogni pretesto e argomento discusso a parole sembra un sintomo del mondo che muore, e non solo della morte di un individuo – non solo la morte ‘narrativa’ in campo, ma anche quella esistenziale, e dunque in qualche modo reale, del mondo fuori campo, il nostro, o meglio, quello che ne sappiamo. La maggior parte delle inquadrature del film, facendo i conti alla fine, è costituita da piani a due, Tilda Swinton da una parte e Julianne Moore dall’altra, quando una a destra e l’altra a sinistra quando una sotto e l’altra sopra – lo spazio nei singoli fotogrammi è davvero sfruttato nell’ottica di trasformare il volto umano, con le sue rughe e imperfezioni, in un oggetto da contemplare come un panorama. Di inquadrature significative che potremmo menzionare ce ne sono svariate, ma una notevole che può passare inosservata, anche perché sottile in un modo difficile da riscontrare fuori dal cinema puro di Almodóvar, si trova nella parte iniziale del film, quando Martha è ancora in ospedale e non ha ufficializzato all’amica la propria decisione: Tilda Swinton è spalmata sul lato sinistro dell’inquadratura, stesa nel lettino ospedaliero, Julianne Moore adagiata sul lato destro, la stanza è circondata di fiori lasciati dagli amici di Martha per supportare la sua guarigione, mentre la carta da parati della camera è anch’essa ricoperta di texture floreali. Martha, chiaramente, parla di morte, e dei suoi ricordi, una figlia rinnegata, la contraddittoria natura della vita sessuale di chi lavora con la guerra, cosa vuol dire desiderare la morte, vedersi come un quadro di Hopper, da contemplare in vita, da imitare quando si è pronti all’oltretomba. Una stanza vera e finta, piena di informazioni visive, contrastata con il melodramma delle cose della vita. Ingrid, un nome che richiama Bergman, e Martha, che richiama Fassbinder, con le loro confessioni tragiche su sfondo bucolico, finiscono per attraversare buona parte dell’ultimo secolo, e dialogano tra loro con una lucidità perfettamente europea, osservando con un sontuoso equilibrio tra empatia e distacco molti dei temi che dividono e uniscono gli umani nella cosiddetta società civile, l’alienazione, la guerra, l’amore e soprattutto la morte. Un senso di finalità aleggia sempre in The Room Next Door, anche di più che nel confessionale fragile contenuto qualche anno fa in Dolor y Gloria, già a partire dal titolo, la collocazione spaziale dell’altro, ‘la stanza accanto’, il luogo che rimane, il lascito di quello che il rapporto fu nei suoi ultimi momenti.
The Room Next Door, uno dei film più interessanti dell’ultimo decennio abbondante della carriera di Almodóvar, conferma la genialità del modernismo del regista, che compone ogni primo piano col classicismo dei maestri del cinema romantico della prima metà del Novecento ma si prodiga in slanci espressivi con un montaggio che non molla mai la presa, trasformando la pulsione di morte in una tensione infinita, comandata dall’istinto, dalla poesia visiva di una vita intera. Martha è un personaggio che si può permettere il lutto di un suicidio elegante, nobile, bello — in pubblica piazza, come quello a cui di recente si è sottoposto Godard. La domanda infinita e senza risposta del mistero della morte sarà sempre un sottofondo… in una vita trasformata dal tempo, Ingrid e Martha come Julianne e Tilda come Pedro stesso, la mente dietro parole e immagini, una vita punk e sregolata, affamata di scoperta e creazione, trasformatasi, in questa contemporaneità caotica priva di certezze e piena di ambiguità e sdoppiamenti, in una parodia borghese fatta di contrasti invisibili, in cui la vita e l’arte si mischiano. È commovente, a modo suo spirituale, sembra una promessa di maturazione, e costringe lo spettatore a confrontarsi con idee di cui non è facile parlare, per alcuni, neanche coi più cari, ma possono essere lì, sul grande schermo, a dialogare con noi.
Un’ultima nota: negli ultimi lavori di Almodóvar, è ricorrente la presenza di una scena chiave che con rigore ed essenzialità, anche nascondendo qualcosa allo spettatore, riesce a trovare una poesia romantica in una situazione irrisolta, ambigua, scene la cui messinscena sembra studiata per rimanere nella memoria – in poche parole, grandi idee. In Strange Way of Life, è il finale aperto, in Madres Paralelas il momento “delle tende” (chi sa, sa), in The Room Next Door è una scena in cui Ingrid crede che Martha si sia suicidata, ma non è così. Nei primi giorni insieme, Martha dà a Ingrid un segnale per capire il momento dell’ultimo gesto: la porta di camera propria sarà chiusa. Ma una notte, Martha tiene la finestra aperta e la porta si chiude da sola – informazione abilmente occultata allo spettatore. La porta, il corpo di Ingrid che vi si contorce di fronte per il dolore, prima di scoppiare in un pianto incontrollato stendendosi in posizione fetale, prima che l’altra ritorni, è un incubo, è tutto troppo presto. Quando l’amica riappare, Ingrid si arrabbia, ma Martha le risponde: «Non puoi arrabbiarti con me perché non sono morta» – e quando Martha appare, è bianca come un fantasma. Quando la decisione di morire viene presa ufficialmente, il Sole dalla finestra la bacia con un giallo splendente, un sorriso radioso, un’infinita tensione verso l’indeterminatezza della morte, con gli amici e gli artisti che ci aiutano ad accettarla profondamente.
Nicola Settis