Era ben più che evidente fin dall’annuncio della sua messa in produzione, anzi a ben vedere già dalla folgorante progressione autoriale innescata con i precedenti L’infanzia di un capo e Vox Lux, che l’opera terza The Brutalist avrebbe permesso a Brady Corbet di innalzare ulteriormente l’asticella delle proprie ambizioni. Con un’epopea ad alto budget, cinematograficamente monumentale già dalla sua sinossi e come di consueto audace in più di una scelta linguistica, che guarda abbastanza apertamente da qualche parte fra il Sergio Leone di C’era una volta in America e il Paul Thomas Anderson di The Master, ma per molti versi anche della trilogia coppoliana de Il padrino, per immaginare con il medesimo respiro epico e spettacolare di un Micheal Cimino la parabola, molto lontanamente ispirata dall’autobiografia – già messa in scena da King Vidor nel suo La fonte meravigliosa del 1949 – dello statunitense Frank Lloyd Wright autore fra le altre opere della celebre Casa sulla Cascata, di un architetto ebreo ungherese sopravvissuto al campo di concentramento, simbolico rappresentante dell’intero movimento che dal Bauhaus passò dopo la guerra alla razionalità del brutalismo, ed attraverso le sue traiettorie di ascese, cadute, (im)potenze e (in)aspettate inculate dipingere la Philadelphia in espansione (e costante corruzione) dal 1947 al 1960. Un affresco morale, prima ancora che politico (ci torneremo…), con il quale mettere in scena nelle forme magnetiche e variegate del (più) grande cinema (non solo) a stelle e strisce l’eterna incompatibilità fra il soldo e l’intelletto, e quindi ancora una volta l’ipocrisia del potere, e il costante logorio sia di chi lo detiene sia soprattutto di chi lo subisce. Fra ripetuti abusi e razzismi più o meno latenti, fra mecenatismo e simbolismi, fra genialità artistica e capitalismo dal quale dovere necessariamente dipendere. Assunti a cui Brady Corbet, in collaborazione con la moglie Mona Fastvold co-sceneggiatrice e co-firmataria, giunge attraverso la sistematica demolizione di oltre un decennio di Sogno americano, lungo lo scorrere (o forse sarebbe meglio dire il volare) quasi impercettibile di duecentoquindici minuti che sembrano un cortometraggio, divisi (letteralmente, da un countdown di Intermission in cui, come già fece Tarantino ai tempi di The Hateful Eight, il proiettore continua a girare nell’alzarsi e ritornare al proprio posto degli spettatori rendendo in qualche modo la visione un vero e proprio evento) in due atti incorniciati da un’ouverture e un epilogo ambientato nella Venezia del 1980 che estenderà fino a più di trent’anni l’arco narrativo complessivo. Elementi di un film «impossibile», come definito dallo stesso giovane e sempre più consapevole autore classe ‘88 nelle note di regia allegate in cui si limita a ringraziare tutti coloro che hanno creduto nel gigantismo sconfinato del progetto fino a permettergli di portare l’impresa a termine, pensato (e rimandato nel 2020 causa Covid, con in mezzo il cambio di buona parte del cast principale) per quasi dieci anni, e poi girato con sfacciata (e ossigenante) arroganza nel glorioso VistaVision che fu di Vertigo (sostanzialmente lo stesso principio dell’IMAX70, quindi lo scorrimento orizzontale e quattro volte più veloce della pellicola perché ogni fotogramma possa fisicamente occupare più del doppio rispetto allo spazio che avrebbe a disposizione nello standard del formato, usando però il 35mm), per farlo infine stampare su emulsione 70mm e, con ragione, porre come condizione non negoziabile che almeno all’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove The Brutalist trova la sua prima mondiale nel concorso principale, fosse mostrato nel formato per il quale è stato concepito.
Già dall’incipit, prima ancora che i titoli di testa si mettano a scorrere lungo l’asfalto del viaggio in pullman verso Philadelphia, è impossibile non iniziare a strabuzzare gli occhi di fronte alla magnificenza estetica e cinematografica di The Brutalist, al suo travolgente ritmo narrativo, al suo sguardo, alla sua capacità di ritornare a un cinema puro e bellissimo, intrinsecamente magniloquente, al tempo stesso perfettamente classico e perfettamente moderno quando non proprio all’avanguardia, che (quasi) nessuno fa più. Un’Ouverture in pianosequenza dal fascino abbacinante, che lascia emergere dai tagli di luce e dai dettagli nelle inquadrature di pedinamenti a mano non necessariamente in asse le drammatiche figure caravaggesche del corridoio di una nave che sembra ancora un campo di concentramento, lungo il viaggio via mare che porterà il protagonista Lászlo Tóth (di certo non casuale la scelta di dargli il nome dell’uomo che aggredì a martellate La pietà di Michelangelo), interpretato da un Adrien Brody straordinario nel ritornare ventidue anni dopo ancora una volta a Il pianista, alla sua nuova vita in America, ma sin da subito ribaltando la Statua della Libertà come un nuovo duce da appendere, come l’ingresso in un nuovo incubo, come una nuova minaccia magari meno esplicita e violenta, e anzi al contrario seducente per quanto insincera nelle sue promesse di libertà e di uguaglianza, ma in fin dei conti non così dissimile da quella a cui si era appena sfuggiti. Una minaccia gentile che sarà incarnata sì dalla famiglia del miliardario mecenate Van Buren di un Guy Pierce incredibilmente somigliante a Brad Pitt e mai così bravo per lo meno dai tempi di Memento, pronta a servire al protagonista il Sogno americano su un piatto d’argento per poi ripetutamente negarglielo da qualche parte fra la sincera stima e il desiderio di sopraffazione intrinseco dell’uomo sociale ricco e potente (o se si preferisce fra l’angelo salvatore e il demonio dei più inaspettati e dolorosi tradimenti), ma in generale dall’America tutta. Un Paese che promette e che poi raggira, che invita apparentemente accogliente offrendo riconoscimenti e seconde occasioni ma che poi non si fa alcun problema ad accoltellare all’improvviso, e magari più volte, alle spalle. Compreso quel cugino d’America ormai tanto perfettamente integrato da aver cambiato cognome e da non farsi problemi a scacciare malamente Lászlo, compresa quella tossicodipendenza da oppio in vena sviluppata in guerra per resistere al dolore delle ferite per non uscirne mai più, compresa quella comunità che tanto si fa vanto di accogliere ma poi guarda di sbieco e mette i bastoni fra le ruote. E compresa pure la parabola di vita che toccherà all’amico nero Gordon, conosciuto alla mensa dei poveri e per tanti anni unica reale spalla in un reciproco sostenersi, che sarà quello fra i due in grado di uscire dalla spirale autodistruttiva della dipendenza ma nemmeno per lui, cittadino statunitense, sarà possibile dare un futuro realmente agiato al figlio: al massimo la dignità in almeno un briciolo di quotidiana paura. DalL’enigma dell’arrivo che dà il titolo alla prima parte, per tracciare gli anni 1947-1952 del primo (in realtà a ben vedere già secondo) momento di ascesa sociale del protagonista fra incomprensioni, carbone da spalare e tardivi riconoscimenti che diventano occasione irripetibile, a Il solido nucleo di bellezza del secondo atto, che fra il 1953 e il 1960 – e finalmente con la presenza melò di quella «donna dietro all’uomo» ridotta in sedia a rotelle dall’osteoporosi come ulteriore simbolo di una felicità ancora una volta mutilata, eppure che tutto sa grazie ai suoi dolorosi sogni che in realtà sono vere e proprie visioni – prima farà deragliare il progetto insieme a un treno di materiali, e poi lo farà ripartire anni dopo con una nuova pietra da posare ma pure con un’altra ancora, più grave, instabilità interpersonale e sociale con cui dover fare i conti come una nuova persecuzione. Un lato A e lato B che dal Sogno inevitabilmente degrada verso l’Incubo Americano, un po’ come se il tentativo (letterale, nell’ambito architettonico) di costruzione dopo il tentativo di distruzione (metaforica) del passato, non potesse che portare inevitabilmente a una nuova distruzione nel presente e nel futuro, come un destino ineluttabile, come un tunnel privo di vie d’uscita del quale non rimarrà altro che lo splendore visivo, il senso di meraviglia, lo slancio artistico e intellettuale. La costante e almeno a tratti necessariamente tracotante potenza espressiva di un’opera, che sia un edificio o un film brutalista anche nel suo accostamento di forme linguistiche differenti, fra le figure umane nel bosco di Tarkovskij e le colline di Dreyer, fra i cinegiornali (veri/falsi) e l’erotismo vintage, fra i rapporti epistolari e gli elaborati pianisequenza a mano di dettagli e oscurità. Fra la stordente eleganza dei totali in camera fissa e gli improvvisi jump cut che ellissano il tempo sulle medesime inquadrature, e poi ancora fra i memorabili primi piani durante le scene di sesso (o molto più spesso di masturbazione, in un’impotenza che solo al momento di un nuovo – e probabilmente ancora una volta illusorio e distruttivo, ma il protagonista non lo può ancora sapere – accettare di convincersi di una possibilità d’uscita, si risolverà nel ritorno alla passione) e i time-lapse sulla costruzione che warholianamente riscrivono il tempo perché non cambi nulla. Passando per la magnifica e al contempo tremenda parentesi italiana fra il bianco striato di mille colori delle cave di marmo di Carrara e le silhouette come puntini nella montagna, in cui l’estrattore anarchico ricorda in italiano la Resistenza e poi il suo unico reale viaggio per andare a infierire personalmente sul cadavere di Mussolini. Fino all’ennesimo, definitivo, inevitabile precipitare degli eventi, e poi all’amarissimo bilancio di un dolore che nessun successo potrà mai spazzare via.
È per questo che comunque la si pensi su una delle questioni più spinose della contemporaneità, un po’ come di fronte ai meravigliosi e (necessariamente) controversi capolavori di propaganda affidati al tempo dal regime nazista a Leni Riefenstahl – paragone audace e probabilmente sbagliato, ma rende l’idea –, non avrebbe senso incancrenirsi e lasciarsi imbrigliare in gabbie ideologiche, come in troppi qui a Venezia sembrano stare facendo, su una qualche posizione apparentemente sionista oppure antisionista di The Brutalist, e già il fatto che ci siano due campane assolutamente convinte che esprima convinzioni opposte la dice lunga sulla voluta ambiguità in merito del film. In primo luogo perché una questione in realtà sempre un bel po’ più problematizzata dentro e fuori dalle sue righe, non solo nello straordinario dialogo a tavola in cui è lo stesso protagonista a mettere ampiamente in dubbio la retorica di Israele come «promessa di liberazione» al momento della decisione della nipote di tornare a Gerusalemme specificandole come chi decide di restare non sia «meno ebreo di chi riparte», ma anche più in generale nel suo continuo cambio di prospettiva verso uno Stato Ebraico nel quale non avrà mai intenzione di andare a vivere fino a quando non cederà alle pressioni della moglie, e poi nella sovrainterpretazione della sua opera fino a fraintenderne le intenzioni su cui la nipote convinta sionista baserà il suo discorso finale, e simbolicamente nei demoni che, come già ne L’infanzia di un capo e Vox Lux, non cambiano il loro volto lungo le generazioni. Ma soprattutto perché non è Israele il punto del film, ma gli Stati Uniti. Anzi, al massimo Israele ne sarà un’ulteriore copia proprio come l’America ha finito per copiare l’Europa, in quell’irrisolvibilità dei dolori e delle cicatrici che non abbandoneranno mai l’immaginario ma non troppo Lászlo Tóth e che anzi lo consumeranno fino alla fine della sua vita, così lontano dall’avere realmente trovato una soluzione ma solo compromessi fra un’interruzione e l’altra. Un aspetto che, se banalizzato e frainteso, in questo ben preciso momento storico potrebbe forse costituire l’unico reale ostacolo per un film dalla superiorità cinematografica talmente manifesta da costituire quasi una concorrenza sleale, nella sua corsa verso il Leone d’Oro (o comunque verso un premio importantissimo) per ora sostanzialmente priva di altri avversari credibili. Come spiegato dallo stesso protagonista a tavola agli influenti avvocati ebrei americani tanto vicini alla presidenza da riuscire a sbloccare dopo cinque anni ogni intralcio burocratico al suo ricongiugimento con l’amata moglie, nel mettere in scena questo gioco al gatto col topo fra il talento e il potere (economico, politico) dal quale il talento dipende, non è l’antisemitismo il reale punto del film, ma molto più semplicemente l’essere stranieri, europei, “diversi” non solo per religione ma per formazione culturale, in un aperto j’accuse che dall’interno vuole guardare con occhio fieramente antiamericano alle marcescenze morali statunitensi, e non necessariamente a chissà quale lettura della complessità geopolitica e antropologica del Novecento europeo o delle questioni mediorientali. È per questo che «la meta ben più importante del viaggio» a cui (dalla Biennale di Venezia, e quindi dall’Europa, mentre il protagonista dopo gli anni passati a Gerusalemme sarà ormai ridotto in sedia a rotelle e bombola d’ossigeno, in grado cinque anni prima di completare finalmente l’opera eppure per sempre tormentato dai suoi infiniti conflitti irrisolti) alluderà la nipote Szófia nel già citato discorso che metterà la parola fine alla pellicola di Corbet, non è in alcun modo Israele, come potrebbe apparire a una lettura più superficiale, ma molto più semplicemente la realizzazione finale di un progetto, a costo di una felicità però solo parziale, di facciata, posticcia, in cui è impossibile dimenticare gli abissi di orrore trovati in ogni tappa di un’eterna fuga. In cui è impossibile dimenticare i campi di concentramento, è impossibile dimenticare le illusioni, è impossibile dimenticare il dolore, è impossibile dimenticare i (doppi) stupri, è impossibile dimenticare le overdose, è impossibile dimenticare i sogni di verità che non smetteranno mai di tormentare ogni notte. In cui è impossibile dimenticare le ferite personali dalle quali da sempre nasce ogni scintilla dell’ingegno, nell’architettura così come nel cinema. Ferite la cui «meta finale» non può essere altro che l’aspirazione di dare vita a un’opera d’arte assoluta e straordinaria con cui entrare nella Storia, a un’utopia come quella di una assoluta razionalità degli spazi bellissima nel suo saper essere perfettamente funzionale. Magari da poter rileggere come due celle dei differenti campi di sterminio, rappresentate in tutta la loro angustia nella quale non si può che guardare verso l’alto, ora e per sempre simbolicamente legate dai corridoi dell’edificio-capolavoro dell’architetto ma non per questo in grado di cancellare i lunghi anni di sofferenza e di lontananza in un’infinita peregrinazione alla ricerca di una serenità e di una giustizia che probabilmente nel mondo, non solo occidentale, non potranno mai esistere. O magari no, magari è solo una costruzione il più possibile razionale e funzionale, e il resto è solo il volerci vedere ciò che si vuole, l’ennesimo guardare esclusivamente al proprio egoriferimento da cui nessuno, nemmeno le ex-vittime dei peggiori crimini contro l’umanità, sembra riuscire a sfuggire. Perché «la mente può forse non soffrire la perdita, ma il cuore sì». Ed è proprio il cuore (cinefilo), quello che la grandeur e il talento sempre più smisurato di Brady Corbet sanno toccare e strappare via 24 volte al secondo. Riempiendo gli occhi e le viscere con un film dal respiro e dalle ambizioni consapevolmente smisurate, epiche, mastodontiche, e proprio per questo così riossigenanti per il cinema contemporaneo tutto.
Marco Romagna