28 Giugno 2024 -

EL TRÍPTICO DE MONDONGO (2024)
di Mariano Llinás

Tecnicamente sarebbero tre film distinti e pure ampiamente diversi fra loro, quelli con cui Mariano Llinás si presenta, fra la competizione internazionale e il fuori concorso, a sparigliare ogni carta al FID di Marsiglia edizione 2024. Eppure, conoscendo e seguendo oramai da diversi anni ambizioni e strutture del suo cinema imprevedibile e multiforme, e complice la sua decisione di racchiudere direttamente sotto il cappello El Tríptico de Mondongo i tre lavori, organizzandoli come episodi numerati con cui approcciare in tre modi radicalmente differenti i vari aspetti (e magari le più inaspettate conseguenze) del medesimo discorso, è difficile non considerare i 57 minuti di Mondongo: la materia y la obra, le due ore esatte del successivo Retrato de Mondongo e i 90’ spaccati dell’ultimo Kunst der Farbe come tre parti di un lavoro unitario e ancora una volta monumentale del geniale regista argentino, tre capitoli indissolubili di uno stesso multi-film di 4 ore e mezza, tre (nuovi) petali di un nuovo straordinario e complesso, ma non per questo meno divertente, fiore cinematografico. Che questa volta è appunto un trittico, e non una trilogia, un po’ per l’ambito artistico-pittorico-visivo nel quale si muove, ma soprattutto perché non avrebbe alcun senso estrapolare un singolo film perdendo di vista l’opera complessiva, i suoi rimandi interni, le sue ramificazioni, i suoi ritorni agli stessi punti di snodo, le sue necessarie contraddizioni, i suoi fallimenti da cui orgogliosamente ripartire con (auto)ironia, sempre nuove idee e sempre maggiore consapevolezza. Anche considerando che, inizialmente, il film sarebbe dovuto essere solo uno, realizzato più o meno su commissione per ritrarre il duo di artisti Mondongo, da molti anni amici di Llinás, e per accompagnare la loro installazione museale “Il battistero dei colori”, ispirata a L’arte del colore (nella versione originale svizzero-tedesca, appunto, Kunst der Farbe) del pittore e scrittore Bauhaus Johannes Itten. Un argomento che, una volta sottoposto al filmmaker di stanza a Buenos Aires e ai suoi amici e collaboratori di quel piccolo miracolo produttivo che è ormai da anni la El Pampero Cine – qui rappresentata da Laura Citarella nel ruolo di produttrice, Agustín Mendilaharzu come direttore della fotografia, Ignacio Codino al montaggio e Pilar Gamboa ancora una volta fra le attrici feticcio, in un rinnovarsi di collaborazioni nei vari ruoli che non può che ricordare gli anni Settanta della Bel Air di Julio Bressane e Rogerio Sganzerla, schegge impazzite del Cinema Marginal brasiliano –, non poteva che diventare semplice elemento di un ragionamento molto più approfondito, vasto e articolato, in cui il cinema prende ancora una volta il sopravvento sul progetto per cui si iniziano le riprese, mentre nel lungo processo del suo farsi perfino la vita, da qualche parte fra la realtà e la finzione, può prendere punti di snodo e direzioni del tutto impreviste.

Del resto, si chiede lo stesso Llinás, come ci si può mettere a fare un ritratto, tanto più se a una coppia di ritrattisti, con il cinema? E, soprattutto, come si può realizzarlo senza che diventi necessariamente autoritratto – e magari autodistruzione (si veda già in tal senso il precedente Clorindo Testa, film su un libro, ma anche su un pittore, ma anche su un padre autore del libro, ma anche sul peronismo, ma anche sullo stesso Mariano Llinás alle prese con l’impossibilità di fare un “solo” film) – del suo regista? Una domanda intorno alla quale le riprese si sono protratte per oltre tre anni, fra il 2021 e il 2023 e poi ancora negli ultimissimi mesi, mentre di fronte alla macchina da presa un rapporto umano e di amicizia lentamente si sfaldava fino a sgretolarsi fra differenze di vedute e incomprensioni artistiche, e un documentario potenzialmente classico su un’installazione come Mondongo: la materia y la obra diventava prima un doppio documentario (già) teorico e stratificato – magari a più riprese depistato dalle musiche hitchcockiane di Bernard Herrmann, spartite fra Psycho e Vertigo a creare contrasti, commistioni e cortocircuiti linguistici – sull’opera-«situazione A» (magnifica nelle sue infinite sfumature di mattoni in plastilina), ma anche su un’intervista-«situazione B» di due anni dopo nella quale raccontarne i materiali e raccontarsi a una critica d’arte. Per poi evolversi in Retrato de Mondongo in un (solo apparente, e in realtà doloroso) F for fake surreale sulla fine vera/falsa di un’amicizia da ripercorrere a posteriori dalle schermate di videoscrittura di un PC, e infine nel terzo e definitivo film-saggio Kunst der Farbe con cui, senza più gli artisti effettivamente (?) diventati ex-amici, decidersi ad affrontare in prima persona (e con il cinema, in tutte le sue possibili sfaccettature dal gotico muto fino alla rimessa in scena sotto forma di commedia di dialoghi reali, passando per vedute della natura, registrazioni orchestrali di colonne sonore e per giocose rievocazioni in prima persona di Fritz Lang con tanto di monocolo) il testo di Itten e la sua  teoria del colore. Un percorso a tre stazioni che si fa via via sempre più ardito nelle sperimentazioni (quando necessario multischermiche) e metariflessivo, con l’identificazione dei materiali da manipolare che si intinge di inaspettati elementi thriller, con lo specifico filmico del montaggio che fa concretizzare all’improvviso le associazioni di idee più impensabili, con le sequenze post-credits che annunciano i successivi ritorni sullo schermo (compresa la promessa di Ignacio Corsini che dopo Corsini interpreta a Blomberg & Maciel sarà, pare, di nuovo protagonista del prossimo progetto cinematografico di Llinás). Con «il tentativo di ritratto andato male» e la necessità di ritrovare nuove forme dopo aver perso il controllo su un film diventato nel frattempo, inevitabilmente, un trittico. Ma soprattutto con ciò che sembra una sceneggiatura di finzione pronta a innestarsi gradualmente nel documentario e che invece si rivelerà successivamente la trascrizione di un momento, di scontro reale e, se non proprio decisivo, per lo meno tristemente profetico. Fino alle strutture modulari, ai riquadri, ai pixel, ai contrasti, alle sfumature, alle distonie, all’arte della color correction che diventa lectio magistralis di Inés Duacastella dalle tre pellicole sovrapposte del Technicolor all’argento come colore del cinema e del suo schermo. Né bianco né grigio, ma semplice e pura rifrazione della luce con cui superare le teorie di Itten che dimenticavano di prenderla in considerazione.

«Tu non vuoi davvero fare il film», rinfacciano gli artisti Mondongo a Mariano Llinás, non più disposti a sopportare i suoi lunghi tempi, i suoi ripensamenti, le sue perdite di intere giornate se non settimane o mesi, i suoi continui ritorni allo stesso punto, la sua richiesta che non riescono a capire di recitare loro stessi per rimettere in scena momenti di un passato ormai (e di lì a poco definitivamente) alle spalle, e ancora i suoi sostanziali litigi dialettici a distanza con gli utenti di Letterboxd, che nello stroncargli il precedente Clorindo Testa finiscono paradossalmente per fornirgli le migliori sinossi possibili per El Tríptico de Mondongo. Eppure è proprio lì, nel continuo ripensare allargando ogni volta i confini e cambiando ogni volta il punto di vista, nell’incessante ricerca, nella costante rimessa in discussione del senso stesso del cinema (documentaristico, ritrattistico, di finzione, saggio) e del progetto-Mondongo, che sta il cuore dell’operazione di Llinás, lucidissima proprio mentre sembra che proceda verso il cinedelirio. In quei momenti che, ormai, il regista può ripercorrere solo retrospettivamente, riscrivendoli in Retrato de Mondongo oppure riguardandoli e magari rimettendoli in scena con la fidata Pilar Gamboa (sempre straordinaria tanto nel controllo dell’intonazione quanto in quello di ogni singolo muscolo del volto nelle infinite minime variazioni di intenzione) in Kunst der Farbe, mentre il cinema diventa a sua volta uno spettro il più possibile completo dei colori nella commistione di generi e istanze differenti di ieri e di oggi, nelle riprese dai treni attraversando l’Italia che si innestano alla perfezione nei musei e nelle case di Buenos Aires, nei cartelli muti (e magari virati) di Vampire (o forse di Irma Vep, come già nel 1915 Louis Feuillade aveva chiamato con un anagramma il personaggio interpretato da Musidora) che si alternano senza soluzione di continuità a Ornella Vanoni che canta L’appuntamento su YouTube, e poi ancora nelle onnipresenti schermate (e meta-schermate, e meta-meta-schermate) del computer con cui tentare di (ri)scrivere un film come una lettera (o meglio tre, di cui solo la centrale esplicita) a persone perdute proprio quando si credeva di averle più che mai vicine. Ora rendendo la sceneggiatura un segno di interpunzione delle immagini documentarie, come se fossero messe in scena, e ora rileggendola mesi dopo, forse sperando in fondo al cuore di riuscire a cambiarla, di sicuro per poterla rivivere e finalmente comprendere in ogni sfumatura di acidità dei suoi «clarissimo». Il resto sono il blu, il verde, il rosso, il giallo, il marrone, il bianco, il (nitrato d’)argento, l’oro. Il negativo. La luce e il buio. Spiegati, composti, suonati, filmati, virati, rivisti, manipolati, plasmati. Vissuti come sussulti di pura emozione su uno schermo. Nella storia dell’arte (Giorgione, El Greco, lo stesso Itten) così come su una schermata di DaVinci, in un film deragliato, fallito e diventato altro così come in un film composto da materiali e fantasie di ogni tipo con cui tradurre (non solo dal libro in tedesco con la collaborazione dell’attrice María Villar, ma nei segni universali della lingua cinematografica) lo spettro dei colori e delle loro sfumature. In un trittico audiovisivo che allo stesso modo (ri)combina generi, istanze, teorie, riflessioni, contrasti e – perché no? – giochi al cinema. Elementi primari (e secondari) il più possibile eterogenei da ridiscutere e armonizzare a piacimento, ancora e ancora, in una varietà pressoché inesauribile e infinita. In un’immagine, in un racconto, in un genere, in un colore. In un sentimento a sua volta contrastato.

Marco Romagna

“Kunst der farbe” (2024)
90 min | Documentary, Comedy, Musical | Argentina
Regista Mariano Llinás
Sceneggiatori N/A
Attori principali Pilar Gamboa, María Villar
IMDb Rating N/A

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