Prima di tutto c’è il rosso. Il rosso del sangue, del fuoco, della sistematica distruzione, della tragedia di un intero Popolo. E ora del totale ribaltamento dei rapporti di forza: cancellare chi (ha) ripetutamente (tentato di) cancella(re), manipolare chi (ha) manipola(to), attentare a chi (ha) attenta(to), distruggere chi non ha mai smesso di distruggere. Un po’ come quelle strisce nere che rendevano illeggibili i documenti nel depalmiano Redacted, e che allo stesso modo, in questo A Fidai film con cui il cineasta palestinese Kamal Aljafari si riappropria di parte dell’archivio dell’OLP trafugato nell’82 dalle Forze di Difesa Israeliane in un attacco al Palestine Research Center (che, nel dubbio, nel corso dell’anno successivo verrà definitivamente sventrato da un’autobomba), gridano dal loro rosso la necessità di ricominciare a leggere ciò che per decenni è stato censurato, di ricostruire attraverso i pochi brandelli ritornati fortunosamente disponibili l’identità nazionale di un intero popolo (letteralmente) rubata, calpestata e meticolosamente distorta. A costo di rispondere a una violenza fisica e politica così ordinariamente reiterata con altrettanta violenza, questa volta metaforica ma non per questo meno rabbiosa, che cancella dalle immagini (un tempo, e ora di nuovo) palestinesi (quasi) tutto ciò che nel frattempo le ha invase e occupate da Israele, i loghi aggiunti in alto a destra dai “nuovi proprietari” delle pellicole e delle VHS, i cartelli in alfabeto ebraico con cui la propaganda trasforma innocui raccoglitori di frutta in pericolosi terroristi, perfino i volti e i corpi con cui il cinema sionista ha fagocitato e nascosto sotto il tappeto quello di Palestina. Per un film schierato e militante sin dal titolo, da quel Fidai che nient’altro è che il singolare di Fedayyìn, “i devoti”, “i martiri”, “i partigiani”, e quindi i guerriglieri islamici di ogni parte del mondo, e che vuole essere in primo luogo un atto politico, una riappropriazione, una restituzione, una resistenza, un’aperta lotta contro chi, a più riprese, ha fatto sparire gli archivi (di immagini, ma anche cartacei) di una nazione per far sparire insieme a loro la Storia, la memoria condivisa, l’identità stessa di un Popolo. Il suo punto di vista. Una privazione attraverso la quale perpetrare altre privazioni, chiudendo l’intero catalogo visivo e documentale dell’autodeterminazione di uno Stato in altri archivi, questa volta dell’esercito e del Ministero della Difesa israeliani, a cui nessun palestinese ha accesso. Eppure nel corso degli anni qualcosa è fuoriuscito da quegli scaffali blindati, per le altre ricerche di chi invece poteva consultarlo, per qualche duplicazione su nastro magnetico conservata altrove, o per qualche trasmissione televisiva con cui fare apertamente fraintendere ciò che le immagini mostra(va)no. Nasce da qui, come specificheranno i titoli di coda con la trascrizione “romanzata” di una telefonata fra lo stesso Aljafari e un amico necessariamente lasciato anonimo, A Fidai film. Da un archivio «gigantesco e scomparso» e dalla possibilità di mettere le mani su copie più o meno clandestine in cui parzialmente ritrovarlo, dalle interviste ai funzionari israeliani protagonisti del sequestro del materiale e alle madri e mogli di Fedayyìn caduti, dalle immagini dell’autobomba sionista del 1983 contro gli edifici dell’OLP e dal rosso che irrompe a cancellare buona parte di Israele dalle immagini per mostrare almeno una piccola parte di ciò che Israele ha cancellato dalla Palestina. Una vera e propria operazione di contro-sabotaggio, che recupera ciò che è stato rubato e che, nel ricucirlo in nuova forma, rivendica Storia, identità e orgoglio di un’intera nazione colonizzata, martoriata e saccheggiata fino al tentativo di annientarne perfino la sostanza, l’essenza, la più intima natura umana e collettiva.
Una ricognizione nel passato sradicato, nel found footage e in immagini eterodirette da ricontestualizzare (e da ripulire dai falsi significati per lungo tempo a loro attribuiti) che A Fidai film, nella sua ora e un quarto circa, cuce insieme fra scene di battaglia, di intifada, di tragici funerali, di repressioni violente e di palazzi sventrati, ma anche di una normalità che vista oggi sembra impossibile, fatta di vita quotidiana in città e in campagna, di panni lavati al fiume e di treni in arrivo in direzione opposta rispetto a quella di La Ciotat. Fino a qualche sprazzo di apparentemente pacifica convivenza, di parole tradotte nei due alfabeti, o forse semplicemente di ipocrisia colonialista, mentre il montaggio e la reinterpretazione del materiale del regista palestinese ormai da tempo di stanza in Germania sembrano suggerire una progressiva discesa dalla pace fino agli inferi della nakhba e della guerra, passando tanto per la propaganda più ostile (e per la pura finzione, che poi è per molti versi la stessa cosa) quanto per i racconti reali delle più efferate atrocità, estratti per lo più dalla penna di Ghassan Kanafani scrittore, giornalista e portavoce FPLP ucciso da un attentato nel ‘72, e lanciati a video come una sostanziale punteggiatura letteraria del racconto-non-racconto con cui (ri)costruire e ritrovare le immagini mancanti. Del resto, senza stare a scomodare per l’ennesima volta Rithy Panh, già nel 2015 di Recollection Aljafari si era messo alla ricerca di immagini mancanti (per lo più di Giaffa deserta, ma non solo), da far emergere dai fotogrammi “non narrativi” della cinematografia israeliana, così come nel successivo Un unusual summer partiva dalle riprese delle telecamere di sorveglianza di un parcheggio di Ramla subito dopo un atto di vandalismo per tentare di immaginarne, dai comportamenti degli astanti, il precedente fuori campo. Immagini mancanti, e spesso rovinate fra il decadimento dei rulli in 16mm e le aberrazioni low-fi delle copie su nastro magnetico, che questa volta sono (ciò che è rimasto del)l’intero corpus visivo di un Paese, fantasmi ardenti che ritornano dall’oblio con le loro storie e con i loro luoghi, nascita (o forse sarebbe meglio dire morte) di una nazione attraverso l’espropriazione forzata di ciò che è (stata), della sua consapevolezza, del suo dolore. Delle sue lacrime e della sua rabbia. Un lavoro, presentato nel Concorso della 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (e vincitore del premio assegnato dalla Giuria SNCCI) pochi mesi dopo il debutto assoluto a Visions du Réel di Nyon e giusto una settimana prima della première francese al 35mo FID di Marsiglia, che prima ancora del suo – indubbio – valore cinematografico si configura, come si diceva, come un inestimabile gesto politico e militante, concepito ben prima del 7 ottobre 2023 ma diventato con l’ultima escalation ancora più pressante e improcrastinabile, e se possibile ancora più potente nelle sue rivendicazioni, nel suo chiedere a gran voce rispetto, nel suo restituire a un Popolo quelle che sono la sua identità e la sua memoria collettiva. Il resto sta nel rosso, nuova onda che arriva dal mare, striscia come di sangue su un fotogramma rigato, fuoco che non smette di bruciare. Sabotaggio di un sabotaggio. Azione di risposta con cui contrattaccare. Avanguardia che non ha la benché minima intenzione di una resa.
Marco Romagna