Sembrano quasi seduti in una sala cinematografica, i ragazzi di spalle che in Rapsodia in agosto si accalcano per ammirare l’infinito da una panchina. Una scelta, quella di elaborare il poster che accompagnerà l’edizione numero 77 partendo da quello che è forse uno dei fotogrammi in assoluto più poetici di Akira Kurosawa, con cui il Festival di Cannes omaggia attraverso le sue grafiche il cinema in quanto atto di visione collettiva senza più limiti né distanziamenti sociali, tutti vicini e a bocca aperta verso l’ignoto, il sogno, la meraviglia, l’ingegno, la magia delle immagini. E ovviamente la Palma, questa volta non semplice simbolo inserito da qualche parte nella pagina ma vera e propria co-protagonista del poster, centro dello sguardo dei bambini, catalizzatrice delle speranze tanto degli autori quanto degli spettatori, e dall’altra parte orgoglioso segno cannense della propria inevitabile grandeur. Quella grandeur che è sempre più inevitabile croce e delizia della principale manifestazione cinematografica al mondo, tanto elevata nella qualità quanto elefantiaca e sempre più lontana dalla misura d’uomo nella quantità dei film presentati, tanto importante trampolino di lancio per i film che presenta quanto (sin dalla solita sigla pre-proiezioni con la scalinata che ascende alla Palma, come se fosse l’unico reale punto di arrivo) decisamente troppo autocelebrativa nell’utilizzarli di fatto più per glorificare se stessa che il cinema, tanto seducente nel programma quanto a volte frustrante nella difficoltà, fra sovrapposizioni d’orario e gestioni come sempre insondabili delle prenotazioni online (quest’anno la dicitura più gettonata delle 7 in punto del mattino è “Complet” su fondo rosso, senza nemmeno più il “Désolé” di cortesia: vedremo nei prossimi giorni quanti e quali biglietti spunteranno nelle ultime ore), di riuscire effettivamente a vedere ciò che si vorrebbe. Una posizione da asso pigliatutto, che pur di non lasciare alcun film a potenziali competitori (leggasi Venezia, ma anche Locarno) preferisce di fatto togliere loro visibilità relegando il nuovo e atteso lavoro di Jean-François Laguionie a proiezione unica e semi-invisibile sulla spiaggia proprio come l’anno scorso, dimostrando la stessa boria nei confronti del cinema d’animazione (e no, per recuperare non basta un premio alla carriera allo Studio Ghibli che omaggia Miyazaki padre e figlio dimenticando del tutto Takahata), aveva relegato sulla spiaggia il magnifico Mars Express, e facendo la prima mondiale di Spectateurs!, nuovo lavoro di un autore del calibro di Arnaud Desplechin, nella tensostruttura nata diciassette anni fa per le repliche e successivamente dedicata ad Agnès Varda, decisamente migliore delle omologhe strutture veneziane eppure ben lontana dallo sfarzo e dal prestigio non solo del Grand Theatre Lumiére, ma anche della Salle Debussy e della Salle Buñuel, che a sua volta sarà teatro della proiezione unica (perché unica?) dell’ultimissimo – doppio – lascito di Jean-Luc Godard, Scénarios. Del resto è ormai da diversi anni che la direzione di Thierry Frémaux passa attraverso insistite prove muscolari, nelle quali i film non sembrano più essere il reale centro della manifestazione ma poco più che figurine con cui riempire e adornare l’album-Festival: non più un qualcosa da aiutare e sostenere offrendo una prestigiosa vetrina, ma quasi al contrario un oggetto di valore con il quale rendere la vetrina più preziosa delle altre. Anche se, forse, quest’anno potrebbe esserci un’eccezione, con l’ambiziosissimo ritorno dietro alla macchina da presa di Francis Ford Coppola, Megalopolis, costato oltre 120 milioni ma definito “invendibile” dalle major statunitensi e attualmente ancora privo di distribuzione in buona parte del mondo (per l’Italia Eagle Pictures lo ha acquistato solo ieri, quindi ben dopo l’annuncio della sua presenza al Festival transalpino), che proprio grazie al concorso di Cannes (specialmente in caso, secondo i bookmakers nemmeno troppo remoto, di vittoria della Palma d’Oro) potrebbe finalmente trovare i partner culturali e commerciali con cui uscire in tutto il mondo.
Per il resto, oltre al favorito (?) Coppola, la giuria capitanata da Greta Gerwig si ritroverà di fronte una competizione particolarmente fitta, fatta di ventidue titoli dalla durata media ormai definitivamente dilatata verso le due ore e mezza (quando non tre ore), in cui The Shrouds del maestro David Cronenberg segurà direttamente The Substance dell’allieva body horror Coralie Fargerat, in cui il Grand Tour di Miguel Gomes potrà forse (ri)partire dall’Oriente per veleggiare verso l’Oh, Canada di Paul Schrader, o verso il Motel Destino di Karim Aïnouz, o ancora verso la Napoli di Parthenope di Paolo Sorrentino, ma anche in cui il Limonov secondo il perseguitato politico Kirill Serebrennikov potrebbe – chissà – trovare inaspettati alleli in comune con The seed of the sacred fig del perseguitato politico Mohammad Rasoulof. Passando per i nuovi lavori di Andrea Arnold, di Jia Zhang-ke, di Ali Abbasi, di Emanuel Parvû, di Payal Kapadia, di Jacques Audiard, di Cristophe Honoré con e sulla famiglia Mastroianni, e poi ancora di Sean Baker, di Yorgos Lanthimos, fino all’esordio al cinema animato di Michel Hazanavicius sul quale le aspettative sono molto relative e all’esordio assoluto di Agathe Riedinger con il quale riscoprire anche in concorso il fascino di entrare in sala completamente al buio e semplicemente lasciarsi sorprendere da chi ancora non si conosce. Un evento tutto sommato raro nella competizione del Festival di Cannes, che per il resto è sempre e semplicemente se stesso. Quello che procede per accumulo, sicuro, nel momento in cui prende tutti i film disponibili, di non potere che (r)accogliere (anche) i migliori titoli e i nomi di punta della stagione. Quello nel quale è fisiologico che in base agli autori al lavoro e ai film effettivamente pronti nel periodo giusto le annate possano essere più o meno memorabili (quest’anno sulla carta minore della precedente, che poteva permettersi il lusso di Victor Erice, Takeshi Kitano e Lisandro Alonso in Cannes Première mentre in concorso trovavano posto tutti insieme i vari Ceylan, Kaurismäki, Loach, Haynes, Bellocchio e Breillat), ma in cui è in qualche modo inevitabile che i grandi film arrivino sempre e comunque da soli, naturalmente, dal mainstream così come dalla ricerca, dalle grandi major (compresa Netflix, non più bandita a patto che faccia uscire i film in sala) così come dalle piccol(issim)e produzioni. Film magari seminascosti in qualche sezione laterale, ma basta avere la voglia di esplorare e la pazienza di cercarli fra le (troppe) pagine pieghevoli del (doppio) programma in pdf sul quale necessariamente pre-compilare l’intero calendario con giorni e giorni di anticipo, per trovare (biglietteria online ed eventuali file permettendo) la forma della propria Cannes. Una Cannes che si preannuncia di grandi animatori, per esempio, trattati tendenzialmente male come il già citato Laguionie, ma in cui spicca Sauvages! con cui lo svizzero Claude Barras torna otto anni dopo il magnifico Ma vie de Courgette, spicca il lituano Gints Zilbalodis con il suo nuovo Flow, spicca il ritorno di Vincent Paronnaud in coppia con Alexis Ducord, e spiccano pure, alla Quinzaine des Cinéastes, tanto i cileni Cristóbal León e Joaquín Cociña che a sei anni da La casa lobo tornano (seppure in tecnica mista fra pupazzi, passo uno e live action) con The Hyperboreans, quanto Nobuhiro Yamashita che in coppia con Yôko Kuno firma Ghost Cat Anzu, mentre fra i corti pure Kōji Yamamura presenterà il suo nuovo Extremely Short. Ma sarà anche una Cannes di visioni laterali, con Guillaume Brac che non si capisce cosa ci faccia in AciD, con Leos Carax, Rithy Panh e Claire Simon da andare a inseguire per repliche al Cineum di LaBocca, con il nuovo Mad Max al quale sarà invece con ogni probabilità impossibile entrare, con le proiezioni di mezzanotte e qualche cortometraggio che suscitano interesse, con le consuete opere prime o seconde della Semaine de la Critique e con Cannes Classics che compie 20 anni e festeggerà, fra gli altri, con i restauri dei vari I sette samurai, Sbatti il mostro in prima pagina e The Sugarland Express, ma pure con il Wiseman di Law and Order, con Tsui Hark, con Jean-Pierre Melville, con Lino Brocka e, in apertura di sezione, con la prima parte del Napoléon di Abel Gance finalmente ricostruito nella sue versione originaria e integrale di circa sette ore. Fra qualche dolorosa rinuncia quando i film si incastrano male, e magari qualcosa da vedere senza troppa voglia quando non c’è altro di appetibile. Fa parte del gioco, sempre lo stesso, sempre faticoso, sempre stressante, sempre formativo, sempre bellissimo. Con due ruote sulla strada e gli occhi ancora pieni di meraviglia, per altri dodici giorni da spettatori entusiasti, appassionati, sognanti. Il più possibile puri. Come bambini innamorati di uno schermo.
Marco Romagna