Sono passati cinquant’anni esatti dall’uscita nelle sale di The Sugarland Express (1974), secondo lungometraggio realizzato per il grande schermo da Steven Spielberg o per meglio dire il primo, se si considera che il celebrato Duel (1971) era nato come film per la televisione, soltanto in seguito rivisto, ampliato e portato nei cinema grazie al suo successo. Mezzo secolo che la Universal, già al tempo coraggiosa produttrice, non poteva che decidere di celebrare con un restauro 4k realizzato con la supervisione dello stesso Spielberg, e a cui l’edizione numero 77 del Festival di Cannes non poteva che dedicare un momento solenne (ri)portando il film su quella stessa Croisette dalla quale era tornato con il premio per la miglior sceneggiatura, accogliendolo con entusiasmo sul prestigioso palcoscenico della ventesima edizione di Cannes Classics. Eppure a ben vedere The Sugarland Express è un film inevitabilmente minore nella carriera del regista di Cincinnati, un (raro) insuccesso commerciale che fece però drizzare le antenne alla critica più attenta (Pauline Kael vedrà nel giovane cineasta «l’Howard Hawks della sua generazione»). Non è però un film meno importante, perché ci restituisce uno Spielberg – quello dei suoi primi anni, prima della svolta rappresentata da Lo squalo (1975) – del tutto distante dall’immagine che si è poi andato a costruire nei decenni, quella del produttore e del confezionatore di opere di enorme successo commerciale, etichette che sempre più spesso gli vengono applicate ben prima di identificarlo come regista e come autore. Nei primi anni Settanta Steven Spielberg era un ragazzo sì ambizioso, sì promettente, ma che non aveva potuto sottrarsi all’inevitabile gavetta, un po’ come tutti (o quasi) gli altri suoi compagni di percorso, quei cineasti, passati alla storia come i movie brats (George Lucas, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma), che ancora oggi rappresentano i più celebrati esponenti di quella che fu la Nuova Hollywood. Se però i vari Coppola e Scorsese si erano fatti le ossa principalmente alla corte del re dei b-movies Roger Corman (e dunque con produzioni a basso budget ma comunque destinate al grande schermo), peraltro con una solida formazione accademica alle spalle (che mancava al regista dell’Ohio), nel caso di Spielberg, invece, quella gavetta fu compiuta nel mondo della televisione, come avvenne per altri celebrati nomi della New Hollywood (Sydney Pollack, Sam Peckinpah, Robert Altman). In particolare, Spielberg girò una decina di episodi di serial televisivi (tra cui il pilot di Colombo) e una manciata di film per la tv (incluso il citato Duel), prima che – come si diceva – la Universal, insieme a David Brown e Richard D. Zanuck (il figlio di Darryl), gli affidasse il compito di girare un lungometraggio destinato ad approdare direttamente sul grande schermo.
Va anche detto che nel 1974 in cui uscì The Sugarland Express la locomotiva della New Hollywood era ben avviata già da diversi anni. Quel meccanismo straordinario che aveva portato, nel giro di un lustro, a riconsiderare completamente la figura del regista – quasi sempre alla mercé del produttore durante la Golden Age e invece poi rivalutato come vero e proprio auteur – iniziava, a dire il vero, a mostrare già le prime crepe, con le major che tornavano, sfruttando le nuove leve, a riconquistare quel ruolo di primo piano cui sembravano avere abdicato. C’era stato infatti Il padrino (1972), opera di enorme successo commerciale in cui una grande casa di produzione (la Paramount) si era affidata a uno di quei giovani astri nascenti della regia (Coppola) affinché ne risollevasse le sorti, con risultati straordinari al botteghino; e c’era stato L’esorcista (1973), con cui la Warner aveva registrato uno dei maggiori incassi di sempre nella storia del cinema, anche in questo caso affidandosi a un cineasta proveniente dalla tv, William Friedkin. Nel 1975, con Lo squalo, proprio Spielberg darà il via definitivo al ritorno in auge degli Studios, cambiando per sempre il mondo del cinema americano e aprendo la strada alla stagione dei blockbuster. In questo senso Spielberg, insieme all’amico George Lucas, contribuì alla conclusione dell’esperienza della New Hollywood ben più che al suo sviluppo. Se infatti il nuovo cinema americano aveva portato negli Stati Uniti la figura del regista-autore, cui si era abituati in Europa ma non Oltreoceano, Spielberg e Lucas creeranno invece la figura del regista-manager, del regista-imprenditore, per certi versi in continuità con i produttori della Hollywood classica, di cui di fatto Spielberg era un erede. Spielberg è considerabile, da sempre, un uomo degli Studios, a differenza di vari suoi colleghi dell’epoca, formatisi principalmente nel mondo del cinema indipendente (vedi De Palma). A Spielberg mancavano, per lo meno al tempo, la vocazione puramente intellettuale e la speculazione teorica tipica di alcuni suoi colleghi (Coppola, Scorsese). La sua sola vocazione, a latere delle metafore socio-politiche da sempre leggibili più o meno in filigrana nelle sue opere, era quella al classicismo. Un classicismo da ritrovare in un’epoca di arrembante modernismo, con un senso nostalgico comunque diverso da quello di un Bogdanovich, che seguirà quello stesso filone con tutt’altro spirito. In questo contesto The Sugarland Express, uscito soltanto un anno prima di Jaws, rappresenta un’anomalia, un fuor d’opera piuttosto spiazzante se pensiamo alle decine di opere successivamente dirette dal regista di Cincinnati. Siamo in Texas: Lou Jean Poplin, appena uscita di prigione, è assolutamente determinata a riprendersi suo figlio “Baby Langston”, affidato a una famiglia di Sugarland a causa dei suoi problemi con la legge. La prima mossa scellerata della donna è quella di aiutare a evadere di prigione suo marito Clovis: è un’autentica follia, considerato che gli restano soltanto quattro mesi da scontare, peraltro per piccoli reati. Rubata l’auto di una coppia di anziani, i coniugi Poplin finiranno per sequestrare un agente di polizia e la sua auto di pattuglia, facendola diventare il Sugarland Express, che dovrà portarli a ricongiungersi con il figlioletto, accompagnati in tale impresa da una carovana di auto della polizia che seguiranno la coppia monitorando la situazione ed evitando fino all’ultimo, per merito di un capitano della polizia locale relativamente indulgente, di intervenire in maniera violenta. La storia è ispirata a fatti realmente accaduti in Texas nel 1969, ma soprattutto è una classica storia da New Hollywood, di perdenti e di disperazione.
Non sorprende che il soggetto, inizialmente proposto da Spielberg alla Universal in quello stesso 1969, sia stato dapprima rifiutato dalla casa di produzione per poi venire accettato e finanziato soltanto qualche anno dopo. Nel 1969, infatti, era ancora troppo presto per una storia di quel genere, disperata e senza speranza. La ventata di novità portata – anche nei temi – dalla new wave americana doveva del resto ancora manifestarsi nella sua pienezza. Se Gangster Story – film con cui The Sugarland Express ha parecchio in comune, da molti considerato l’opera prima della triade che darà il via alla New Hollywood – era già uscito da due anni (1967), doveva invece ancora essere metabolizzata la portata dirompente di un’opera epocale come Easy Rider, giunto nelle sale proprio in quel 1969 in cui Spielberg tentava invano di farsi finanziare il progetto dalla Universal. Anche con il film di Hopper i debiti sembrano evidenti: per il finale drammatico che chiude una battaglia che si intuisce già persa in partenza; per la contrapposizione tra ribellione e conservazione (anche se la ribellione dei Poplin ha poco a che vedere con quella dei personaggi tipici della New Hollywood); per la presenza dei redneck reazionari pronti a improvvisarsi giustizieri; per la sequenza della parata, che è ai limiti della citazione; per lo stesso ricorso al road movie, il genere peraltro già utilizzato da Spielberg per Duel. Nel film-tv del 1971, però, la strada era vera e propria protagonista (come lo era del resto in Easy Rider), nonché strumento indispensabile della palese allegoria di fondo: la caccia all’uomo comune da parte di un nemico senza volto come metafora della paranoia del cittadino nei confronti del potere. In The Sugarland Express, invece, la strada perde questa connotazione allegorica – che tornerà ne Lo squalo, con altri espedienti – e il film si concentra su un tema prettamente neo-hollywoodiano, quello del loser, qui protratto agli estremi, considerato come la protagonista mostri tutta la propria irrazionalità con scelte impulsive e gesti che rivelano costantemente la propria disperazione e immaturità: nel bel mezzo di una sparatoria, la donna sembrerà preoccuparsi prima di tutto di mettere in salvo i bollini della raccolta punti che ha sottratto ad alcuni distributori di benzina. Semmai è la famiglia uno fra i temi più centrali in Spielberg, i cui traumi giovanili – la separazione dei genitori in particolare, raccontata con dovizia di particolari in The Fabelmans – incideranno in maniera importante sul suo sviluppo, anche professionale. E la famiglia è la vera protagonista di The Sugarland Express: quella disgregata e sconclusionata dei Poplin; quella artefatta degli affidatari, che potrebbero essere i nonni del piccolo Langston, più che i suoi genitori; quella della polizia, con il capitano Tanner che prova a ritagliarsi un ruolo di saggio paterfamilias (ma non è – più – un paese per vecchi, ci dirà il finale). C’è chi ha visto nel personaggio di Lou Jean Poplin un vago riferimento alla madre del regista e alla sua immaturità, che fu concausa del disgiungimento familiare in casa Spielberg (lo stesso regista l’ha paragonata a Peter Pan, definendola una sorella maggiore, più che una genitrice). Goldie Hawn, all’epoca in rampa di lancio dopo l’Oscar vinto nel 1970 e la fama raggiunta con alcuni serial televisivi, è semplicemente perfetta nel rappresentare le psicosi di una donna vinta dalla disperazione, come perfetto è il capitano Tanner di Ben Johnson, ufficiale d’altri tempi in un Texas d’altri tempi, in cui si preferiva procrastinare gli scontri a fuoco, almeno finché non fossero divenuti inevitabili. I due Texas Ranger tiratori scelti sono invece i rappresentanti del cinismo della legge, della miopia reazionaria che non si fa troppi scrupoli a liquidare i disperati, ostentando una sicurezza che alla prova dei fatti si rivelerà pressapochismo e inefficienza. Il contraltare para-legale dei ranger sono i due redneck (e il figlio di uno di loro) che danno il là a una delle tante scene arrembanti del film, quando tentano di sostituirsi alle autorità nella caccia ai due fuggitivi: Spielberg li raffigura come macchiette, che contribuiscono a quegli sprazzi di humor che talvolta fanno capolino nella pellicola, spostando il tono dal drammatico alla commedia – e qui addirittura al grottesco. Tanto che proprio ai redneck texani, sulla cui auto spicca l’adesivo «Schedate i comunisti, non le armi da fuoco», verrà messa in bocca una delle frasi più riuscite della sceneggiatura: «là fuori è pieno di gente dal grilletto facile» dice convinto uno di loro per giustificare il modo in cui si è vestito.
Altra scelta interessante di casting è quella di ingaggiare per i ruoli dell’agente sequestrato e del marito di Lou Jean due attori molto somiglianti (rispettivamente, Michael Sacks e William Atherton), come a voler dimostrare la labilità del confine che separa chi delinque vinto dalla disperazione e chi è chiamato a garantire l’ordine. Nel finale, non a caso, l’agente sarà colpito da una manifestazione piuttosto evidente della Sindrome di Stoccolma, argomento che si può far risalire anch’esso a quegli anni (la rapina alla Sveriges Kreditbanken è del 1973). La presenza di una troupe televisiva al seguito della carovana di automobili, così come le interviste che vengono fatte da alcuni giornalisti ai genitori affidatari del piccolo Langston a Sugarland, dà inoltre la possibilità a Spielberg di introdurre il tema dei media e della spettacolarizzazione del dolore e di vicende più o meno tragiche, con la conseguente banalizzazione delle motivazioni e del contesto e l’inevitabile formazione di schieramenti e tifoserie manichee. Sotto il profilo tecnico, The Sugarland Express va ricordato, innanzitutto, per l’impeccabile fotografia di un maestro come Vilmos Zsigmond: suo il primo nome che appare nei titoli di coda, su una suggestiva ripresa di uno scintillante Rio Grande, il luogo in cui si conclude la corsa dei Poplin. Ma va ricordato anche per l’utilizzo, per la prima volta, della Panaflex, cinepresa leggera ed estremamente maneggevole sviluppata dalla Panavision, che permise inquadrature nuove, prima pressoché impossibili, come la carrellata dal sedile anteriore di un auto a quello posteriore e la panoramica a 360 gradi dell’abitacolo. Quel nuovo mezzo tecnico e la perizia di un d.o.p. che si era già fatto un nome firmando la fotografia di alcuni di quelli che diventeranno classici della New Hollywood (I compari; Un tranquillo weekend di paura; Il lungo addio; Lo spaventapasseri) sono al servizio di uno Spielberg che alterna continuamente piani ravvicinati dei protagonisti all’interno dell’auto e campi lunghissimi della carovana di veicoli – idea ripresa o omaggiata in seguito da opere come Convoy e The Blues Brothers. Uno Spielberg che sa come rendere spettacolare pure un banale rifornimento di auto della polizia a una stazione di servizio. Va infine menzionata la colonna sonora di John Williams, che diede il via a una decennale, straordinaria collaborazione con Spielberg, tra le più proficue e durature della storia del cinema. Anche sotto questo aspetto, quello musicale, Spielberg fu un elemento dissonante rispetto ai suoi colleghi della New Hollywood: se l’utilizzo di colonne sonore pop e rock era stato un tratto caratteristico dei film della corrente, fin dagli archetipi Il laureato e Easy Rider, Spielberg sarà invece un continuatore della tradizione sinfonica della Hollywood classica, privilegiando pressoché sempre le partiture d’orchestra.
Vincenzo Chieppa