Non c’è solo l’elemento del fuoco, richiamo più evidente al suo film del 2014 fa nel rogo crepitante di carte processuali e nastri magnetici da quarto di pollice, a riportare il cinema di Daniel Hui direttamente a Snakeskin. Ci sono anche gli stessi fantasmi, questa volta incarnati da una donna che racchiude in sé mille storie e mille prevaricazioni del sistema sui cittadini dissidenti, e c’è anche la medesima memoria storica come centro fondamentale di qualsiasi speculazione umana e politica. Come se il nuovo e semplicemente magnifico Small Hours of the Night, presentato in prima mondiale nella sezione Harbour dell’International Film Festival Rotterdam 2024, costituisse con il suo «qualche volta nei tardi anni Sessanta» cuore dei movimenti di Sinistra a Singapore e della sistematica repressione anticomunista da parte della legge e del Potere, e nel suo raffinatissimo look 4/3 retrò (poco) bianco e (tanto) nero da contrastatissimo noir sperimentale in 16mm, una sorta di sostanziale prequel dell’ambientazione nel 2066 e del colore, altrettanto materico, del film realizzato dieci anni fa dal regista singaporiano, il ritorno in altre forme linguistiche e narrative a un discorso mai chiuso, a una ferita mai rimarginata, a una verità mai abbastanza raccontata e dibattuta nel ripercorrere la breve e tumultuosa Storia post-indipendenza del Paese. Questa volta basta una stanza, a Daniel Hui. Basta un posacenere, basta il vetro di una finestra, basta l’acqua che arriva da uno spiffero a spazzare via la cenere da terra, come se lavasse via la memoria. Bastano due personaggi, lei che cuce insieme almeno cinque persone e decine di storie in una sola grande memoria e lui che la interroga sempre più incalzante, a darsi il cambio in dialoghi rigorosamente privi di controcampo. Basta un registratore a bobine, bastano pochi (e magari cangianti) punti luce con cui far emergere le due figure in silhouette nel buio o il gigantismo dell’ombra di una formica sul muro, basta che la parola stimoli l’immaginazione, portando in qualche modo a visualizzare, e a soffrire, ciò che non è necessario mostrare. Storie e suggestioni di omicidi e di tragedie d’infanzia, di funerali e prigioni, di padri e fratelli, di sedizioni e di pene di morte, di infanticidi e di prostituzione, raccontate fra oscurità, mistero e rifrazioni della pioggia come varianti mai universali ma anzi particolareggiate e spigolose di una singola dolorosissima Storia, quella di un Paese e quella di un Popolo in opposizione vessato dal Potere e alla completa mercé dei tribunali in un sistema legale oppressivo e dalle condanne spropositate, quella del senso di vuoto scaturito dalla separazione dalla Malesia in cui cercare disperatamente un appiglio di materia, un orologio, uno specchio, magari un insetto da inseguire con gli occhi. Quella di un bisogno di libertà che pervade come «un demone», e che fa perdere anche quella poca libertà altrimenti concessa a chi non lo sente bruciare. Elementi di un film dialettico, ipnotico e politicissimo, che parte da un caso giudiziario quasi totalmente dimenticato (“il caso della lapide di Tan Chay Wa”, attivista di Sinistra impiccato in Malesia nel 1983 per il semplice possesso di una pistola, e il cui fratello venne successivamente incarcerato per cospirazione dopo aver tentato di far incidere sulla sua lapide una poesia rivoluzionaria) per destrutturarlo in parti di testo tratte dalle varie testimonianze, amalgamate in una sola donna con cui tornare indietro nel tempo di una quindicina d’anni per farsi perseguitare dai fantasmi di un futuro già noto, e poi affidarsi totalmente alla parola e all’immedesimazione, al linguaggio verbale e cinematografico come perfetta sintesi di forma e contenuto, ma anche al disvelamento improvviso, allo shock di una luce che cambia e ricontestualizza le percezioni, alla lucidità e alla deriva, al visibile e all’invisibile, al consequenziale e al falso raccordo. Al dispositivo e alla narrazione come frammenti di un mosaico di esperienze personali, tutte diverse eppure tutte collegate, dalla cui unione intravvedere il disegno più grande e più ipocrita, l’autoritarismo da cui tentare così disperatamente fuggire, la grande (dis)illusione di una sedicente democrazia, tutte le ferite nascoste di un Paese, Singapore, strappato e smarrito nei chiaroscuri della sua recente egemonia. Una Storia che va ritirata fuori da sotto i tappeti sotto cui è stata nascosta, e anzi elevata a perfetto paradigma, da ascoltare attentamente nei suoi insegnamenti e nel suo costante ripercuotersi sul presente: non è forse questo il senso stesso del rappresentare?
«Hai mai immaginato di essere qualcun altro?». «A volte». Una proprietà transitiva, interna allo stesso grande corpo martoriato di un Popolo e di un ideale calpestati, su cui Daniel Hui costruisce il personaggio omnicomprensivo di Vicki, ribelle per tutti i ribelli e vittima per tutte le vittime, che non sa nemmeno esattamente perché stia prendendo sulle proprie spalle e raccontando in prima persona, fra la viva voce e i nastri magnetici, tutte le microstorie che incarna: semplicemente lo fa perché le sente crepitare dentro, unica persona nella stanza dotata dei brandelli di memoria da ricucire insieme per tentare di capire le storture di un sistema, ultima depositaria di un dolore più grande, passato presente e futuro. Perfetta protagonista di una Nouvelle Vague sporca, oscura, contrastata, sgranata e magnificamente imperfetta come la pasta dell’immagine sull’emulsione, in cui innestare un racconto hard-boiled, da qualche parte fra Kafka e Beckett, nel quale magari non sapere nemmeno perché ci si trovi in una stanza buia, ma essere sempre perfettamente consapevoli di come stia sempre per accadere qualcosa (d’altro) di terribile. In un inestinguibile sentore di morte, di tempo che non passa, di violenza psicologica, di libertà negata, di confessioni estorte. Un lungo dialogo a brandelli che non può che svolgersi in inglese, nella lingua dell’indipendenza (e delle diatribe internazionali), lasciando la nostalgia dissidente del mandarino e del malese solo al ricordo personalissimo di una madre, e soprattutto alla poesia rivoluzionaria composta un attimo prima dell’esecuzione da Tan Chay Wa eroe giustiziato per aver tentato di cambiare le cose, e successivo pomo della discordia per estendere la repressione e le pene senza misura alla sua famiglia. Il resto sono padri scomparsi e ritrovati riversi in un fiume, che nemmeno la tomba sembra accettare nel loro eterno riposo. Sono nuovi detenuti in cui cercare l’amato Khai magari senza volersi arrendere alle possibili altre realtà. Sono passi sulle scale durante la notte, sono screzi e voltafaccia fra minoranze etniche, e sono jam session extradiegetiche di free jazz in cui anche un ragno sembra fermarsi a contemplare il caos, a cercare di unire i puntini per tentare di trovare un ordine impossibile nel mondo. Sono storie di violenza sociale e domestica, di verginità perdute e di sorelle quindicenni, di stati di trance e di percosse, di abusi contro cui lottare e di sensi di colpa inestinguibili. Sono storie di avvocati, di giudici, di opposizioni, di povertà, di tradimenti, di lapidi di martiri da martirizzare ancora. Sono sogni e realtà come brandelli di un unico grande incubo, sono pezzi di Storia e di lotta fra il Fronte di Liberazione Nazionale Malese (MNLA) e le rappresaglie subite dopo le insurrezioni comuniste contro l’esercito regolare, fino ad arrivare al futuro, agli anni Ottanta, all’inevitabilità della sconfitta e della morte dopo altri vent’anni di ribellione in una città-Stato che non voleva essere Stato, e poi ancora ai primi anni Settanta sempre più sotto gli autoritarismi ultranazionalisti di Lee Kwan Yew e della “sua” giustizia a tolleranza zero, dei suoi magistrati tanto incorruttibili da rivelarsi i più corrotti e spietati, magari da scandagliare come un diario quasi giorno per giorno e condanna per condanna mentre il tempo dell’interrogatorio si spezza in un loop, torna indietro e poi riparte sempre uguale, cambia data e ora ma non sembra poter mai vedere una fine. Passando da quel primo e (pressoché) unico controcampo dopo 40 minuti, come un passaggio di testimone nella penombra tagliata dalla lama di luce rotante di un faro, e poi all’improvviso chiarore del bianco, alle grida, agli infermieri, alle corde, alla sedazione. A un interlocutore che non è più lo studente in legge che collabora con la polizia, ma il dottore di un ricovero coatto, imposto a chi sa e parla troppo per essere lasciato libero: forse un boia, o forse un insperato salvatore; forse l’unico possibile amico, forse l’unico possibile ascoltatore, forse l’amore perduto e ritrovato, forse il principale delatore. O più probabilmente una semplice controparte interna, simbolica, immaginaria, con cui parlare del passato e del futuro, di cui imparare a fidarsi e con la quale aprirsi, ma destinata a non avere (più) né un corpo né un’identità (o magari sì, ma non la si vuole riconoscere), né tanto meno la possibilità reale di fare qualcosa per liberare il corpo dei prigionieri, imputati al di sotto della legge, privati di ogni diritto da un sistema giudiziario duro, repressivo, assurdo. Può però liberarne la mente, il ricordo, la (poesia della) Resistenza. Può insegnare a pensare, a rendersi conto, a disilludersi, a ritrovare in fondo alle ore piccole della notte la luce di quella libertà tanto agognata quanto impossibile, o per lo meno una pacificazione. A riuscire finalmente a sciogliere i nodi intorno ai polsi per ricordare anche chi, come già nella metafora di Snakeskin, cambia pelle, diserta, e forse ricollega tutto in un’improvvisa e dolorosissima virata melò di scelta fra l’attivismo e l’amore, e di più estreme conseguenze delle proprie decisioni. Un film spiazzante e potentissimo, (letteralmente) oscuro e misterioso eppure perfettamente chiaro nel suo senso e nel suo messaggio, di pura finzione eppure perfettamente documentario nel raccogliere e unire i lacerti delle storie vissute facendo riemergere le vittime e la repressione dall’oblio. Un film di luce e di buio, di creazione e di distruzione, di acqua e di fuoco, di ombre e di rifulgenze, di parole e di silenzi, di narrazioni e di attese, di ricerche formali e di complessità straordinarie. Un film già fra i capolavori più belli e importanti dell’anno in corso, visione indispensabile che si installa nel fondo delle retine e lì si ferma per un po’ o forse per sempre, come il fulmineo passaggio di un bagliore poderoso e ammaliante, come una pietra tombale, come un’ipnosi, come un commosso epitaffio.
Marco Romagna