Presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023 giusto un mese dopo la prima di Yannick a Locarno, Daaaaaali! è l’ultima opera del prolifico Quentin Dupieux, artista multiforme e poliedrico come il gigante del Novecento Salvador Dalí, protagonista assoluto di questa sorta di omaggio stilistico e biografia “emotiva”, un po’ sulle orme di quel che fece Todd Haynes con Bob Dylan in Io non sono qui. Quando la grandezza del personaggio trattato è difficile da rinchiudere in un racconto canonico, una delle vie possibili di rappresentazione è quella di frammentare le diverse essenze, tendenze, periodi storici in tanti personaggi (e attori) differenti, scomponendoli in un prisma atto a rivelare, o almeno sbozzare, i tratti caratteristici di ogni faccia. Dupieux divide il titanico ego del pittore/scultore/fotografo/cineasta/scrittore affidando a cinque attori transalpini (Gilles Lellouche, Édouard Baer, Jonathan Cohen, Pio Marmaï, Didier Flamand, dalle sfumature interpretative e carriere molto differenti tra loro) la caratterizzazione, e inscrivendoli in un surrealistico omaggio che non può che coinvolgere, pur non nominandolo direttamente mai, il sodale cineasta spagnolo Luis Buñuel. Il segmento più lungo del film, infatti, è una riproposizione della struttura onirica alla base del capolavoro del 1972 Il fascino discreto della borghesia, una composizione a scatole cinesi già più volte omaggiata nel corso della storia, specie con effetti orrorifici di jump scare (esempi celebri? Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis e Il seme della follia di John Carpenter). Dalí e Buñuel scossero il mondo, dell’arte e tout-court, tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, al culmine dell’avanguardia surrealista e in uno dei momenti più bui per l’Europa, tra il tramonto della Belle Epoque è l’ascesa dei totalitarismi che porteranno, nel corso di un decennio, al devastante conflitto mondiale: Un chien andalou e L’âge d’or, rivoluzionari per stile e contenuto nella stessa misura, sembravano prefigurare scenari evoluzionisti, anche di cambiamento di morale e costumi, poi spazzati via dal conservatorismo reazionario di stampo religioso da una parte e dal burocratismo ipercontrollato dall’altra. Dalí diraderà le sue collaborazioni per il cinema (ricordiamone due su tutte, quella con Walt Disney nel corto Destino e l’ideazione del segmento onirico in Io ti salverò di Alfred Hitchcock), mentre Buñuel fuggirà dal franchismo riparando prima in Messico e poi di nuovo in Francia, dove terminerà vita e carriera. Dopo questo breve excursus, rientriamo in argomento: Quentin “Mr. Oizo” Dupieux, musicista e regista di videoclip prima ancora che cineasta, si sobbarca il compito improbo di, citiamo le sue stesse parole, «connettersi con la coscienza cosmica di Dalí e lasciarsi da lui guidare, a occhi chiusi». L’indubbio coraggio per il cimento viene parzialmente ripagato da un risultato unico, brillante, ancorché diseguale e meno esilarante di quanto vorrebbe (o dovrebbe).
Si apre e si chiude su uno dei quadri più celebri dell’artista spagnolo, Necrophiliac Fountain Flowing from a Grand Piano del 1933, “riallestito” come scenografia in movimento e traccia tematica d’interpretazione immediata: dare vita all’arte e all’artista rimettendo in moto il flusso d’acqua che scorre dall’interno di un pianoforte a mezza coda, immagine riassuntiva di un approccio anarchico e libero da condizionamenti alla materia. Una giovane giornalista (Anaïs Demoustier) è emozionata per un’intervista che potrebbe cambiare la sua vita, umana a professionale; aspetta l’arrivo di Dalí, e quest’attesa verrà prolungata ad libitum in una brillantissima scomposizione di tempo e spazio nell’angusto orizzonte di un corridoio d’albergo. L’artista non vuole un’intervista scritta ma (anche) filmata, e dalla camera più grande possibile; è questo il punto di partenza e arrivo per una speculazione cinematografica che procede per accumulo e libere associazioni, mantenendo un (esile) filo narrativo a fare da struttura e scombinando continuamente le percezioni di personaggi diegetici e spettatori. Sarebbe completamente inutile, e pernicioso per il lettore, cercare di dare forma compiuta a poco meno di ottanta minuti di audiovisivo che rifuggono da ogni categorizzazione, anche in maniera ostentata e programmatica, una violenza vera e propria alle intenzioni. Basti sapere che i cambi di scenografia, epoca e attore protagonista avvengono spesso nello spazio di uno stacco di montaggio, o di un nuovo livello di sogno del sogno di un cardinale, o ancora dell’ennesimo schermo nello schermo, ed è necessario lasciarsi andare al flusso processando il tutto con l’emisfero destro del cervello, quello deputato a creatività, immaginazione e percezione delle immagini.
Dupieux è di sicuro (non si parla di qualità, si badi bene, ma di approccio alla materia) molto adatto, in quanto estraneo da sempre ai dettami del realismo e impegnato in una riproposizione personale del mondo e dei rapporti umani che lo abitano. Con opere spesso sbilanciate, slabbrate e debordanti, si pensi all’appena precedente Fumer fait tousser che imbastiva un elogio al piacere del tabagismo attraverso un film di supereroi, tendenza contemporanea se ce n’è una nel cinema mainstream, si è autoassegnato il compito di smascherare e mettere a nudo le ipocrisie relazionali del mondo borghese, in continuità quantomeno spirituale con gli eccessi avanguardistici di cui è (o si sente) erede. Nel suo cinema sono ancora presenti le classi sociali nel senso novecentesco del termine, e la conflagrazione tra esse (si pensi al catastrofismo demente dei due sottoproletari protagonisti di Mandibules, presentato a Venezia 2020, che accedono ad una villa di ricchi e la devastano) “eleva” a paradigma sociologico un pensiero per immagini che, superficialmente, può apparire come un divertissement senza ulteriori livelli di lettura. L’incontro diretto con i giganti del surrealismo, ragionando a posteriori, era un approdo del suo cinema abbastanza naturale e prevedibile, un inchino ai numi tutelari che di inchino comunemente inteso non ha però quasi nulla, mantenendo l’obbligatorio approccio dissacrante e irriverente che i due spagnoli avrebbero, probabilmente, apprezzato. Come l’altra grande commedia di questa edizione della Mostra (Hit Man di Richard Linklater) il film è stato presentato fuori competizione. Avvenuto ormai lo sdoganamento di ogni tipo di genere all’interno dei grandi festival (un body horror ha vinto la Palma d’Oro, un fantasy il Leone, i concorsi principali sono ormai infarciti di thriller e fantascienza), manca ancora il più nobile di tutti, la commedia, all’appello. La speranza è che anche quest’ultima barriera cada al più presto possibile, una barriera che preclude non solo i premi ma persino la selezione nelle competizioni. Anche se è proprio su questo fronte che il lavoro di Dupieux latita e di conseguenza aggiunge un giallo al verde del semaforo: apprezziamo, come abbiamo cercato di spiegare, l’idea e il modo di metterla in pratica, ma non abbiamo riso molto durante la proiezione e, viste le intenzioni, questo si configura come un difetto, non da poco.
Donato D’Elia