Che cosa strana che è il cinema. Una corrente come quella del cinema turco più recente, ricca di successi ai festival internazionali con i film di autori vari sui quali spicca Nuri Bilge Ceylan, aumenta le stranezze di questa settima arte a cui siamo così fisicamente legati con l’ultimo film di Emin Alper in concorso a Venezia 72. Allegoria politica, incubo martellante: Abluka (titolo internazionale Frenzy, ma toglietevi subito Hitchcock dai pensieri) è tra le pellicole più strane del festival, capace di essere irritante durante la visione ma anche di crescere dentro allo spettatore dopo di essa: come un caldo e lento rituale di scoperta sottocutanea di immagini-lampo che appaiono e scompaiono tra i confusi ammassi di visioni che per forza finiscono per occupare il cervello tra i ritmi del festival.
Tre fratelli: il più vecchio è Kadir che è stato in prigione vent’anni e che, preso dal rimorso per non aver visto i propri fratelli crescere, quando viene rilasciato dalla polizia come informatore su moti terroristi, va alla propria città natale da loro; quello di mezzo è Veli, che è scomparso da dieci anni ed è diventato un terrorista misterioso anch’egli; il più giovane è invece il muratore Ahmet, la cui moglie l’ha abbandonato scappando con un altro uomo e con i loro figli, abbandonandolo nella depressione e nella paranoia. Ahmet fa stabilire Kadir a casa dei suoi innocenti vicini. Insieme, per hobby, vanno ad uccidere cani selvatici senza motivo. E il film martella con i suoi ritmi lenti ed angoscianti, ostentando un’idea di regia statica ma anche un roboante impianto sonoro (colpi di arnesi e di armi, urla, sveglie, campanelli, guaiti, orgasmi, terremoti) che rende il tutto strano e sottocutaneo. Non colpisce subito come la claustrofobia di Repulsione (1965) di Polanski, ma lascia in uno stato di confusione caotica che si risolve inizialmente come un mal di testa e poi lentamente si tramuta in una sensazione di compimento di un processo di malattia mentale visiva, una vera e propria discesa negli inferi del corrispondente visivo del genere musicale drone di gruppi come i Sunn O))), in una versione marroncina e cupa.
Il minimalismo visivo, purtroppo, può anche indurre ad una certa noia o ad una vacua sensazione di vuoto. Ma cos’è, davvero, la noia nel cinema? Perché a noi (un ‘noi’ generico, non mi riferisco alla redazione quando ad un gruppo di spettatori di un certo tipo di cinema da festival) può annoiare più facilmente Abluka che un film di Tarr, di Tsai o di Lav Diaz? È che siamo troppo abituati, forse, ad una dilatazione del tempo piuttosto che ad una sua dimostrazione così frammentaria. Abluka mostra più eventi da vari punti di vista (come Rapina a mano armata o chi più ne ha più ne metta) e destruttura i propri protagonisti (Kadir e Ahmet) come mondi mentali diversi che non si toccano ma si incontrano, non si psicanalizzano ma cercano di capirsi, di empatizzare. È proprio un tunnel alieno, questo film turco, un viaggio astrale e terreno nella primitiva insensatezza delle azioni umane, inspiegabilmente crudeli nella loro incoerenza. È certo anche che questo sia un film politico, con il cane-vittima come allegoria della classe operaia turca, vittima dei soprusi di un potere che vede il terrorismo ovunque, vittima di una paranoia che lo cerca ovunque e che finisce per bruciare nella spazzatura dei cassonetti mandati in fiamme dall’ignoranza del popolo. E l’unica cosa che sopravvive alla fine è il sangue che richiama altro sangue, perché pure la pulsione che porta all’attrazione sessuale e al voyeurismo svanisce di fronte al disagio sociopolitico emanato da questo cinema. La ricerca di Veli e la ricerca di un senso nel rapporto con Ahmet, che prova più pietà che amore, distruggono Kadir: figura tragica di un film che continua ad essere un vero enigma stilistico e contenutistico, un turbine forse vuoto ma che finisce per inquietare la carne e i sensi anche tanto tempo dopo la visione. Più che “frenesia” o “follia”, Alper delira con grazia una sinfonia monocorde di “ansia” in cui non scorre niente se non la sensazione di essere davanti a qualcosa di marmoreo, ad una drastica e assordante montagna di caos statico in linea retta.
Nicola Settis