Il film del Concorso ufficiale della Mostra di Venezia 2023 che più agisce con il bisturi sulla ferita viva che affligge l’Europa e i suoi confini è Green Border dell’autrice polacca Agnieszka Holland (no, non Io capitano di Matteo Garrone, per motivi esposti molto bene in altra sede), secca rappresentazione dell’inferno quotidiano tra i confini di Polonia e Bielorussia, con i due Stati impegnati a rimpallarsi all’infinito una responsabilità, quella dell’accoglienza dei rifugiati perlopiù mediorientali, che nessuno pare abbia intenzione di prendersi davvero. La criminale spregiudicatezza del dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnko, che usa i rifugiati come “proiettili umani” contro l’UE mettendo a nudo tutte le debolezze e le inadeguatezze della politica estera europea, porta ad ammassare migliaia di uomini, donne e bambini sul “confine verde” del titolo, una brulla striscia di terra tra boschi e radure dove la differenza tra l’essere cittadini europei e disperati “sans papiers” è plasticamente rappresentata da una lunga palizzata coperta di filo spinato, sorta di aggiornamento scevro da ideologie della cortina di ferro dell’epoca della Guerra Fredda. La completa disumanizzazione dell’informe massa di persone provenienti per la maggior parte da Siria e Afghanistan, in fuga da una devastante guerra civile ormai più che decennale e dal fondamentalismo talebano tornato al potere dopo la fuga disordinata dei militari Usa, ha già corrotto le menti degli abitanti dei due Paesi che risiedono in quelle zone, che si parli dei cittadini polacchi ormai da otto anni sotto la presidenza del conservatore Andrzej Duda o della guardia di confine bielorussa. Apriamo parentesi, per una puntualizzazione che non ripeteremo più in seguito: il film ce li mostra così, e non sarebbe giusto considerare quanto messo in scena da Holland come un’oggettiva e inoppugnabile ricostruzione dei fatti, anche se si possono definire materiali documentali per lo script una serie di ricostruzioni giornalistiche corredate di filmati girati in loco, assolutamente inequivocabili. È questo il crinale su cui si muove tutta l’opera durante il suo consistente minutaggio, di poco superiore alle due ore e mezza: presentare gli eventi in maniera emotiva, partecipata e partigiana, e al contempo ammantarli di oggettività tramite una serie di artifici narrativi e retorici, specchio della comprovata esperienza ed abilità di una cineasta (e dei suoi cosceneggiatori Maciej Pisuk e Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko) navigata e dalla carriera eclettica, che ha visitato con la sua opera mondi molto distanti tra loro, dal cinema d’autore europeo (si pensi a Europa Europa, Golden Globe per il miglior film straniero e prima affermazione internazionale) al cinema USA di consumo (contribuì al lancio di Leonardo Di Caprio con Poeti dall’inferno), fino persino alla Prestige-Tv dell’ultimo decennio (regia di episodi per The Killing, The House of Cards o The Affair). Inutile negare che spesso le sue opere non hanno incontrato il nostro gusto, ma questo “ritorno a casa” rappresenta una zampata che da lei, onestamente, non ci aspettavamo più.
Il film inizia su un aereo, con il gruppo di passeggeri su cui ci si concentra inizialmente e che scopriremo poi essere i protagonisti: una donna afghana, il cui marito defunto ha lavorato come interprete per l’esercito polacco, e una famiglia siriana, madre-padre-nonno e due bambini. L’attacco regala subito una prova del simbolismo che verrà profuso a piene mani successivamente: degli occhiali cadono in terra, un bambino li raccoglie e li rimette a posto, la padrona degli occhiali e il ragazzino saranno successivamente insieme in uno momenti più tragici e strazianti, all’interno di una limacciosa palude, e il favore non potrà venire ricambiato. Immersa nel contrastato bianco e nero del direttore della fotografia Tomasz Naumiuk, l’opera regala pagine di cinema magari diseguali ma vibranti, rappresentando un accorato appello a che la politica dei governi democratici prenda redini e responsabilità di una tragedia all’apparenza infinita. Ed ecco che la scelta del bianco e nero (sterilmente estetica ed inutile in TANTI, troppi film di questa ottantesima Mostra) si rivela funzionale ad immergere il tutto in una tragicità novecentesca che gli appartiene di diritto, come se quella grana e quei contrasti, nell’immaginario dello spettatore, avessero bisogno anche dell’assenza del colore per il conferimento della giusta cupezza. Nel finale, poi, l’aggancio a un’altra tragica contemporaneità, quella del conflitto, su un confine non molto distante dal “green border”, tra Russia e Ucraina: due milioni di ucraini accolti in pochi mesi dal governo polacco, perché bianchi, perché europei, perché percepiti dalla popolazione come fratelli (persino un campione della destra di casa nostra, l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, ammise candidamente che gli ucraini si dovevano accogliere «perché cristiani e a noi più simili»). La palese dimostrazione che si può fare, che bastano le intenzioni, l’organizzazione e la volontà politica. Inevitabile, vista l’enormità degli argomenti messi in campo, che ci si trovi a parlare massicciamente di geopolitica in questa recensione, ma ora è tempo di ritornare all’argomento principe, al cinema.
Per favorire l’identificazione spettatoriale, la regista orchestra tre storie private intorno alle raccapriccianti scene di confine: quella di una psicologa che assiste impotente ai soprusi fino a decidere di passare all’attivismo, quella degli stessi attivisti e quella di un soldato di confine che sta per diventare padre. Quest’ultima, la più potenzialmente interessante, si rivela essere proprio la più debole, e costituisce quasi da sola la perplessità per cui al semaforo verde si affianca anche un tocco di giallo. Con un milite violento al lavoro e amorevole a casa, fino a che una breccia si apre nel suo cuore, (forse) destinata a non richiudersi più: probabilmente non a caso, la storia più ambigua e urticante si rivela la più difficile da portare in scena. Il merito indubbio di Agnieszka Holland è quello di prendere di petto la questione, non risparmiando nomi, cognomi e accuse, sentendosi offesa, in quanto cittadina polacca, da come il suo governo stia affrontando la più grande sfida del XXI secolo, quello del mantenimento dell’umanità e dell’empatia di fronte a movimenti umani inevitabili e impossibili da arrestare. Il tono del suo racconto è più diseguale e non manca di momenti ammantati di eccessiva retorica, ma da apprezzare in toto (per chi scrive) è la scelta di mostrare la violenza con tutto il suo devastante impatto: non è pornografia del dolore, ma rifiuto di edulcorare la realtà nella rappresentazione, voglia d’immergere lo spettatore borghese, iperindividualista e fuori dalla Storia, convinto che le sue istituzioni e i suoi diritti afferiscano più allo stato di natura che a conquiste politiche da difendere quotidianamente, negli orrori che accadono appena fuori dalla porta di casa. La camera è spesso a mano in mezzo al dramma, nelle scene concitate, mentre si ammanta di fissità e di una curata composizione del quadro nei momenti di riflessione, negli interni; la scelta estetica è forte e può non piacere, ma non si può negare la determinazione a prenderla, quella scelta. Centro di un film forse più da proiezione con dibattito che da storia del cinema, ma solo per mancanza di autorevoli competitor. Agnieszka Holland, dall’alto dei suoi 75 anni da compiere il prossimo novembre, traccia un sentiero, un solco da cui lancia un allarme: su quel confine stanno accadendo massacri inenarrabili senza che l’opinione pubblica vi ponga la giusta attenzione, se non a tratti, e quello che una volta si chiamava cinema d’impegno civile DEVE raccogliere la sfida.
Donato D’Elia