Nasce da un’idea del regista israeliano da diversi anni di stanza a Los Angeles Guy Nattiv, Tatami. Eppure, non appena conosciuta l’attrice, fotografa, regista e attivista iraniana Zar Amir Ebrahimi già premiata lo scorso anno a Cannes per l’interpretazione della giornalista in Holy Spider, dal 2008 in esilio a Parigi per non dover scontare la condanna in patria a sei anni di carcere e novantanove frustate per la diffusione di un sextape rubato dal suo appartamento e inizialmente scritturata solo per interpretare il ruolo dell’allenatrice della judoka co-protagonista, è parso evidente a entrambi come il film – già scritto contro ogni legge e minaccia del regime persiano insieme all’altra attrice iraniana a sua volta dal 2006 in Francia Elham Erfani, scelta poi per interpretare l’assistente della coach – non potesse che diventare anche la prima e storica co-regia di sempre fra autori dei due Paesi nemici. Come due mani che si tendono e si trovano in un’affinità proibita, per mettere in scena fra il rigore del 4/3 in bianco e nero e il serrato moltiplicarsi dei punti di vista quando lo sport si fa azione, con una manciata di flashback a contrappuntare i principali snodi, un concitato dramma sportivo che si intreccia fino a coincidere con quello politico, per molti versi un thriller-horror, o forse in sostanza un documentario, che in una pura finzione necessariamente realizzata in Georgia con tutti gli attori persiani rigorosamente residenti al di fuori di una patria che nega espressamente ogni contatto e ogni collaborazione con cittadini israeliani, si erge a paradigma di decine di storie vere sempre diverse e sempre uguali, fatte di intimidazioni e di sogni strappati, di ingerenze politiche e di diritti umani calpestati, di minacce multiformi sempre più trasversali e di insostenibili prezzi da pagare per ogni scintilla di identità e ribellione. Non è certo un caso in tal senso che, nel film che trova la sua prima nella sezione Orizzonti di Venezia80, il primissimo imbattersi della judoka persiana Maryam appena giunta al palazzetto dello sport sarà proprio in quell’avversaria israeliana che progressivamente, round dopo round e vittoria dopo vittoria, da Teheran e dall’ambasciata le verrà chiesto espressamente e sempre più ricattatoriamente di non rischiare di incontrare a costo di fingere un infortunio, come a testimoniare sin da subito la possibilità di un confronto, di una reciproca stima, di un’amicizia più forte di qualsiasi caso politico.
Basta immaginare un ipotetico e alternativo campionato del mondo femminile 2019 di judo, a Tatami, da tenersi in una sola giornata a Tbilisi – la manifestazione vera di quell’anno si tenne a Tokyo, mentre la categoria 60kg in cui combatte la protagonista semplicemente non esiste, con le fasce regolamentari fissate dalla WJA a 57 e a 63 chili –, capitale di quella Georgia sita non a caso esattamente a metà strada fra i due Paesi. Dopo il superamento dei primi turni da parte di Maryam, eliminando con sempre crescenti difficoltà e fatica fisica un’avversaria dopo l’altra, suonerà il telefono dell’allenatrice, già a suo tempo costretta per motivi analoghi a fingere un infortunio a Seul, con cui la Federazione nazionale le chiederà di convincere l’atleta a fare altrettanto e ritirarsi, dando l’innesco sin dal momento del rifiuto a una narrazione di sempre maggiori intimidazioni che si intersecano con l’intrinseca e sana retorica ‘militaresca’ del film sportivo. Una serie di ingerenze sempre più gravi che minano la concentrazione di Maryam e costringono il marito (umano e sinceramente progressista, primo offeso dall’obbligo di autorizzare personalmente il viaggio della moglie campionessa per disputare i campionati del mondo, come per dimostrare che non tutto l’Iran è uguale e allineato sulle posizioni più radicali della Repubblica Islamica) a prendere di corsa il figlioletto e fuggire da casa fino a oltre il confine prima che sia troppo tardi, mentre al palazzetto di Tbilisi vengono inviate persone dall’Ambasciata a fingersi tifosi e invece ancora a minacciarla mostrandole in videochiamata il padre già nelle mani delle milizie. Fino alla diretta della manifestazione sulla televisione iraniana che viene interrotta dichiarando falsamente il suo ritiro per infortunio, e in generale allo stringersi di un cappio sempre più stretto intorno al suo collo per sabotare le sue performance sul tappeto. Con una Federazione Internazionale che inizia ad accorgersi del problema ma senza un’esplicita denuncia non può in alcun modo intervenire, fra pressioni di ogni tipo e la tensione che non molla un solo istante, ogni turno successivo del campionato ancor di più che contro le avversarie diventerà una lotta di Maryam contro le sempre più evidenti storture e manipolazioni perpetrate dal regime, un atto di resistenza e ribellione, un’aperta sfida alle autorità. Due protagoniste, atleta e coach destinate prima a perdersi nella paura (anzi nella certezza, con in mezzo la lotta contro il tempo per farle mettere in salvo) di ritorsioni sulle rispettive famiglie, e poi a ritrovarsi nella dignità di chi rifiuta di piegarsi alle imposizioni e anzi sceglie deliberatamente di rischiare il tutto per tutto e di lottare fino in fondo per la libertà. Perfettamente consapevoli che la loro disubbidienza non potrà che portarle all’esilio, a non poter mai più tornare in Iran, a essere considerate in patria, da eroine che orgogliosamente gareggiano per la bandiera nazionale, nuove traditrici e nemiche, «vergogna di un intero popolo» da ostracizzare e se possibile da lapidare, ma anche di come possa essere «meglio l’esilio che l’ipocrisia».
Basterebbe già quel primissimo piano destinato a diventare urlo di Munch di Maryam che pedala freneticamente sulla cyclette, con tre etti da perdere entro venti minuti per non essere squalificata già al momento della pesatura pre-gare, per immergere dopo pochissimi minuti lo spettatore nella stessa tensione crescente delle protagoniste, ancora inconsapevoli del vicolo cieco in cui stanno per essere trascinate con il loro caso che, dalla Federazione persiana, passerà direttamente sui tavoli del governo, e poi ai (ben poco) diplomatici in Georgia che le opprimeranno in maniera sempre più violenta fino a ritirare i loro passaporti, e ai militari che faranno irruzione nelle loro case in Iran caricando le loro scelte di responsabilità sulle vite degli affetti più cari. Un intero sistema khomeinista che si ramifica in tutte le sue tecniche di ricatto, tortura psicologica, manipolazione e persecuzione, in tutte le sue coercizioni e vessazioni nei confronti delle donne, in tutti i suoi sforzi per soffocare ogni minimo accenno di non sottomissione, e in tutte le sue interferenze politiche perfino in quella che dovrebbe essere la zona franca della sana competizione sportiva, per vanificare i duri anni di allenamenti e sacrifici con cui sudarsi la possibilità di una medaglia, per annientare i sogni di atleti e tifosi purché non ci sia un contatto fisico (e la possibilità di perdere) con chi batte bandiera nemica. Eppure, ben al di là delle concitate sequenze degli incontri e dell’urlata presa di posizione politica che cerca la pace fra due popoli nell’aperto rifiuto (nella trama come nella genesi produttiva del film) delle proibizioni del regime, fino a una necessità di respirare che diventa aperta sfida nel togliersi il velo e nel legarsi i capelli in mondovisione nel bel mezzo dei quarti di finale, è nell’intensità quasi insostenibile del confronto dialettico in cui atleta e allenatrice definitivamente si riallineeranno nel rifiuto delle imposizioni e nella decisione di denunciare le pressioni alla Federazione Internazionale, invocando insieme protezione e asilo, che sta il cuore del film. Un dialogo che diventa confessione a cuore aperto dell’allenatrice su come la sua storia identica di tanti anni prima, sempre accuratamente tenuta nascosta, l’avesse portata a interi decenni di rimpianti e di menzogne raccontate al mondo intero e forse perfino a se stessa, mai realmente infortunata e mai realmente delatrice, ma semplicemente figlia e madre che non aveva potuto fare a meno di cedere alle richieste e rinunciare a una probabilissima vittoria pur di proteggere i suoi cari. Il resto è uno scatto di nervi in bagno quando non si vede via d’uscita ma non si vuole cedere, è un taglio insanguinato sulla fronte, è una presa perfetta per tecnica e per efficacia, è la dignità che batte il Potere, costi quel che costi. È il poterci riprovare all’edizione successiva, senza più il velo e sotto i colori della Federazione Internazionale, magari proprio contro qualche (ex) compaesana. Ma soprattutto è un film prezioso, sorprendente e resistente, che disubbidisce per esortare alla disobbedienza, e quindi al confronto al di là dei divieti, alla cooperazione fra Paesi, alla pace fra popoli magari diversi per cultura e religione, eppure come tutti così vicini nell’abbraccio fra i cinque cerchi, e da adesso anche nella scelta condivisa di un linguaggio cinematografico e di un’inquadratura. Quando il cinema arriva da solo a ciò che la diplomazia da decenni fallisce.
Marco Romagna