È a suo modo un decalogo dei pregi e dei difetti cinematografici di “Mr Oizo” Quentin Dupieux, il suo nuovo Yannick presentato nella competizione principale della 76ma edizione di Locarno, mentre il mockumentary Daaaaaali!, in un momento di particolare prolificità del regista e dj francese, è già pronto e sarà fra poche settimane fuori concorso a Venezia. Un film apparentemente sagace e invece alla lunga troppo vacuo, che sa far esplodere nelle più fragorose risate di un incipit fulminante ma andando avanti non ci riesce più, compatto nella sua durata di poco più di un’ora eppure paradossalmente troppo lungo. Un film potenzialmente geniale, e in effetti forte di una sceneggiatura con momenti divertentissimi e di grande arguzia, e invece alla lunga deludente, autolimitato dalla sua mancanza di ambizioni. Tanto brillante nell’idea di partenza e per lunghi tratti prodigiosamente spassoso nei suoi surreali parossismi robustamente innervati di potenziali stratificazioni e metafore teoriche, quanto destinato poco oltre la sua metà a esaurire progressivamente le sue intuizioni e a sgonfiarsi, smettendo o quasi di far ridere e gettando al vento i suoi principali spunti di interesse, introdotti ma non realmente affrontati quasi come a tirare il sasso per poi nascondere la mano. Lo stesso problema, a ben vedere, al quale già aveva scoperto il fianco due anni fa Incroyable mas vrai, che nel privilegiare fin quasi all’esclusiva l’aspetto ludico su quello simbolico finiva per dilapidare una riflessione potenzialmente interessantissima sul rapporto fra essere e apparire, così come su quello fra aspetto esteriore e aspetto interiore, preferendo aggrapparsi all’intuizione iniziale (ottima per un cortometraggio, decisamente meno per un lungo – discorso differente per Fumait fait tousser, che con la sua struttura episodica è di fatto un lungometraggio che lega insieme diversi corti sfruttando ogni intuizione senza fare in tempo a consumarla) e limitarsi a un progressivo, ma in definitiva anche schematico e ripetitivo con i continui andirivieni dalla botola della cucina, ringiovanimento della protagonista semplicemente perché ossessionata dalla possibilità di farlo. Analogamente, con Yannick e con la folle serata dell’omonimo protagonista che dalla platea interrompe un mediocre spettacolo teatrale per prendere il controllo del palcoscenico e mettersi (lentissimamente) a scrivere per poi imporre ad attori e spettatori, pistola alla mano, un testo «più divertente», Dupieux inizia sin dalla primissima inquadratura a mettere in scena lo sfondamento della quarta parete, il ruolo (e la follia quasi intrinseca) dell’artista, lo spettacolo teatrale (e di conseguenza cinematografico) come coesione e scissione fra svago e forma d’arte o molto più prosaicamente come sequestro di persona del pubblico in ostaggio, il testo come vera e propria forma di dittatura a cui ribellarsi, o ancora come il ritrovarsi a essere l’unica persona con un revolver in mano cambi in una sorta delirio di onnipotenza i caratteri umani prima ancora dei rapporti di forza fra gli individui. Senza però avere da una parte la minima volontà – a differenza che nelle sue sortite migliori, da Réalité a Le daim – di affrontare, problematizzare, evolvere e realmente sviscerare i punti e i concetti che mette sul piatto, e dall’altra senza poter contare questa volta su abbastanza verve per reggere con la sola comicità – come già fatto egregiamente in Wrong e forse ancora di più nelle (dichiarate) e divertentissime “cazzate” Wrong Cops e Mandibules – anche sulla lunga distanza.
Una vacuità e un’eccessiva semplicità per cui semplicemente dispiace, perché nella prima metà di Yannick in realtà si ride e si riflette anche parecchio, in una pletora di idee magari solo abbozzate, ma più che sufficienti per titillare l’interesse del cinefilo. Con il 4/3 che incornicia e intrappola la vicenda come una scatola scenica, con la quarta parete sfondata sin dalla prima inquadratura che, nel teatro semivuoto, guarda verso il palcoscenico fra le teste dei pochi spettatori, con lo scontro fra le ambizioni artistiche dell’autore e le aspettative di una serata di semplice svago di chi guarda e non apprezza la sua opera. Con il meta-teatro di un’interruzione di spettacolo che diventa un vero e proprio sabotaggio, e con gli assurdi scambi dialettici fra lo spettatore insoddisfatto («se guardando la pièce sto male e sono frustrato più di quando sono entrato vuol dire che è una cagata: è la mia unica serata libera dal lavoro come guardiano notturno e ci ho messo quasi un’ora ad arrivare perché abito lontano») e i tre attori-burattini che, ognuno con la propria personalità, iniziano a rendersi conto che proprio nell’emancipazione dal testo (che «non si può cambiare», e che invece cambiano per imitare e prendere in giro Yannick fra le fragorose risate del resto del pubblico) potrebbero finalmente trovare la propria personale dignità e il proprio personale talento. Ma c’è anche l’impossibilità di reclamare con l’autore a causa dell’assenza del regista dalla replica di quella sera paragonata all’assenza dello chef dalla cucina di un ristorante, c’è anche l’altro malcapitato spettatore che, sotto le minacce del delirante (ma forse nemmeno troppo) uomo armato, mette a disposizione il suo PC per venire pubblicamente sputtanato nelle sue (piccole? grandi?) manie sessuali, c’è anche l’ispirazione che giunge improvvisa a cancellare con un colpo di spugna tutto ciò che già esiste, e c’è anche la necessità di saper immaginare una sala operatoria nella scenografia della cucina mentre gli attori, come in una prima prova, recitano con i fogli in mano anche gli errori di concetto, grammaticali e di battitura di un testo che non hanno avuto il tempo di imparare. Il risultato è un film ibrido fra l'(in)esauribile fucina di idee e l’eccessiva superficialità di Quentin Dupieux, certamente coeso e ben calibrato nelle sue sostanziali unità aristoteliche e senza dubbio pronto a partire forte con una sceneggiatura di dialoghi esasperati fino all’assurdo, ma che in definitiva nella sua struttura anticlimatica funziona realmente solo per 35-40 minuti, per poi lasciare spazio nell’ultima sezione a una frivolezza senza più mordente né apparenti frecce al proprio arco, indecisa nel tono fra una comicità ormai spuntata e una tensione priva di reale suspense – decisamente non riusciti i momenti in cui gli attori, con tanto di promesse di favori sessuali da barattare con atti di eroismo, confabulano su come sopraffare Yannick mentre fingono di cercare alchimia sul suo nuovo testo, intanto che il protagonista tenta di fare amicizia con il pubblico che ha sequestrato fino magari a scroccare un letto più vicino per la notte, o quello in cui uno degli attori, temporaneamente riuscito a disarmare l’aggressore per ribaltare i ruoli tenendolo sotto tiro, rivelerà il suo lato oscuro potenzialmente ancora più arrogante, gratuito, frustrato e pericoloso del giovane protagonista, «inginocchiati e lecca il pavimento!». Del resto anche la pièce improvvisata da Yannick un tasto di computer alla volta e stampata sul palco è ora pateticamente sgrammaticata e ora realmente più brillante del mediocre Cornuto interrotto e sostituito, come se Dupieux non volesse prendere quella reale decisione fra (più) bello e (più) brutto che avrebbe potuto dare senso definitivo al film, preferendo rimanere su un puro gioco che non vuole affatto chiudere le traiettorie che ha saputo in precedenza tracciare. Mentre la narrazione, quasi inevitabilmente, si incanala verso l’irruzione delle teste di cuoio che non si saprà mai se spareranno e a chi, forse l’unico epilogo possibile di una vicenda evidentemente ispirata dall’attentato del 2002 al Teatro Dubrovka di Mosca da parte del noto commando di terroristi ceceni. È per questo che, nonostante ci si sia anche (molto) divertiti, mentre scorrono i titoli di coda di Yannick ci si ritrova perplessi, consapevoli di aver visto un film complessivamente buono eppure in qualche modo insoddisfatti, forse proprio come gli spettatori dei due spettacoli della folle serata messa in scena. Senza avere mai avuto nemmeno per un secondo la voglia di Yannick di interrompere la proiezione, ma con in bocca lo stesso retrogusto di almeno parziale amarezza, nei confronti di un film che sarebbe potuto essere molto di più, e che invece volontariamente rinuncia a farlo.
Marco Romagna