Black Mass è tra i film di Venezia 72 ad essere meno inquadrabili nell’etichetta del film da festival: è tutt’un glamour, tutt’una fiera da speranza verso l’Oscar, imprimendo nella mente del pubblico di Sala Grande già le immagini tristi e finte dei fasti del tappeto rosso. Anche The danish girl di Tom Hooper può appartenere alla categoria, ma il film di Scott Cooper ha qualcosa di particolarmente inquietante nella sua insaziabile inutilità, e ciò consiste nel non essere altro che, come direbbe il protagonista di Fight Club (1999), “la copia di una copia di una copia”. Cooper è già un regista da convenzionalismi hollywoodiani rinomati, del resto, come ricorda il suo film d’esordio Crazy Heart che portò all’Oscar per il miglior attore a Jeff Bridges nel 2010, ma questa è la sua prima avventura nel genere del gangster film.
Può sembrare un luogo comune, ma è necessario specificare: i limiti di questo genere sono palesemente legati all’originalità che il genere stesso può scaturire e che va di anno in anno diminuendo, giungendo fino alla vertigine del poutpourri postmoderno a metà tra il serio e il non serio, tra il convenzionale film biografico statunitense sulla scia dei recenti successi del genere (The imitation game, La teoria del tutto…) e l’ennesima imitazione più o meno riuscita dei classici di Scorsese. Una cosa però particolarmente grave che porta Black Mass dalla mediocrata convenzionale alla catastrofe (benedicendo il casuale buon gusto che ha portato i selezionatori del festival a non inserirlo in questo comunque deludente concorso) consiste nel suo essere un vero e proprio cartonato plastificato non solo dei topoi del film di genere ma anche dei personaggi, degli attori, delle situazioni. Black Mass nasce e muore come film fossile e come film cadavere: l’abbrutimento di Johnny Depp è inutile di fronte all’atteggiamento eticamente inaccettabile del suo personaggio che viene mostrato comunque con l’enfasi di un dramma epico e con la ripetitività programmatica di uno sketch dei Monty Python – numerose a livelli impressionanti le sequenze in cui il protagonista del film accusa suoi uomini o alleati di averlo tradito e, dopo che questi dicono di non aver fatto niente di male, li ammazza o li fa ammazzare, sempre in maniera diversa.
Bisogna dire che un soggetto così (tratto da una storia vera) aveva delle potenzialità, e che anche in un’ottica come quella del film biografico per il grande pubblico queste sono state sprecate però in maniera praticamente vergognosa. Il personaggio di Joel Edgerton ad esempio è una figura tragica notevole: tradisce le proprie origini legandosi all’ambiente della legge e poi si affeziona al boss interpretato da Depp, si “unisce” al Male e si trasforma nell’opposto del Bene solo per ragioni sentimentali, sprofondando nel baratro della violenza e del caos della stupidità umana insieme agli amici di infanzia e alla loro deleteria criminalità. Peccato che Edgerton sia uno degli attori peggiori della propria generazione e la propria presenza sullo schermo aiuti ad incancrenire una serie di inquadrature montate con un funereo incedere cupo e ridicolo, che sembra fatto per eliminare ogni traccia di empatia.
Cadaverico e respingente colosso di brutale didascalismo, Black Mass si conclude più o meno come esordisce: con scritte e volti che non significano niente, che coniugano troppo e con troppa poca grinta. Non c’è vita né vigore nella vita di questi gangster, e il loro essere morti (dentro e fuori) non viene sufficientemente giustificato dalla regia né dall’approccio della scrittura stessa. E se un film di questo tipo nasce e muore senza sprizzare la vita che contiene né le potenzialità innovative che può portare, il film è sbagliato – anche in maniera a suo modo deprimente.
Nicola Settis