Era già stato Brian De Palma, espressamente in un dialogo del suo Redacted, a ribaltare la massima godardiana che vede il cinema come “verità 24 volte al secondo”. Prendendo coscienza di come esattamente all’opposto, sin dalla loro primissima apparizione con la celeberrima Uscita dalle officine Lumiére rigirata dai fratelli inventori dopo essere rimasti insoddisfatti dal primo ciak, le immagini in movimento non facciano altro che mentire spudoratamente. Perché il cinema è intrinsecamente inganno, truffa, propaganda, che con il suo incontrovertibile mostrare – già nell’antica Grecia, del resto, οἶδα perfetto di ὁράω voleva dire “ho visto” e quindi “so” – interpreta, (ri)plasma e falsifica la realtà che restituisce allo spettatore. Tanto per semplice necessità linguistica, tecnica ed espressiva, quanto a uso e consumo dei fini e delle speculazioni di chi lo commissiona e ne finanzia la messa in scena, degli interessi economici, politici e produttivi che inevitabilmente lo legano al Potere e all’industria. Tanto più in una società talmente condizionata e dipendente dalle immagini che può capitare perfino che un attore porno, in mezzo alla realtà delle colleghe pronte per la scena, non riesca a eccitarsi senza guardare un altro porno sullo schermo di un cellulare. Un paradosso, così come è un paradosso il senso stesso della settima arte, linguaggio fatto di mille possibili linguaggi eterogenei e di continui giochi con il tempo, di contenuti e di forme attraverso cui esprimerli, di significati da sovrapporre ai loro significanti, in cui magari ritrovare molta più verità nelle allegorie paradigmatiche della pura finzione che nella pubblicità di frequente (mal)celata fra le pieghe di quello che si presenta come documentario. È in questo senso che Do not expect too much from the end of the world racconta il vero più assoluto del sistema quando immagina e mette in scena il sostanziale neoschiavismo/neocolonialismo di una gig economy forse ancora più oppressiva ed alienante dei tempi della dittatura, mentre quella che dovrebbe essere una libera testimonianza da filmare così com’è, il (meta)“prodotto” intorno alla cui preparazione e realizzazione girano i due giorni di folle lavoro della protagonista, viene manipolata fino al falso e potenzialmente all’aperta bugia in un video ricattatorio con cui la cinica multinazionale committente, pienamente colpevole degli incidenti che hanno reso disabili alcuni suoi operai fra straordinari obbligati e negligenze varie, vuole ulteriormente sfruttarli per autoassolversi e promuovere l’uso dei dispositivi di sicurezza (che nulla c’entrano con i loro infortuni, avvenuti magari nel parcheggio subito prima di tornare a casa dopo un doppio turno e per colpa di una sbarra male ancorata) presso gli attuali dipendenti. Per un nuovo e limpido capolavoro con cui Radu Jude, dopo l’Orso d’Oro a Berlino 2021 con Bad luck banging or loony porn e tre spiazzanti cortometraggi (Caricaturana, Plastic Semiotic e The Potemkininsts) costruiti su forme totalmente differenti fra loro, torna ancora una volta a vivisezionare con precisione chirurgica e a distruggere con la forza dell’assurdo, dell’aforisma e della dialettica ogni possibile aspetto della società contemporanea rumena e dell’Occidente tutto, in un film-saggio travestito (non solo) da commedia, sarcastico e graffiante sin dalla suoneria della protagonista Angela con l’Inno alla Gioia che continuamente accompagna la sua ennesima giornata di merda di una vita di merda, e al contempo profondamente politico, teorico e filosofico nelle continue citazioni nascoste e nelle infinite stratificazioni di ogni sua singola inquadratura o battuta. Un sostanziale instant-movie – che Jude divide in due parti con cui coprire due giorni, A) Angela: dialogo conversazione con un film del 1891 e B) Ovidiu: materiale grezzo, a loro volta introdotte rispettivamente da una citazione che in qualche modo riassume ciò che sta per accadere – con cui passare in rassegna, analizzare e sistematicamente distruggere ogni possibile ipocrisia e contraddizione dell’oggi, fra le aspettative e lo sfruttamento, fra la società del marketing e le possibili forme di neo-propaganda, fra la malasanità e la mala-architettura, fra lo straniamento di una giornata tutta un passo e fermi al volante e la mancanza di ogni minima previdenza sociale (si veda la donna paralizzata senza più nemmeno la luce in casa), fra le immagini che raccontano quel che vogliono e la Storia che continua a correre e ricorrere in parallelo, fra il classismo e il razzismo che ancora serpeggiano ovunque («Gli albanesi sono più poveri di noi, e anche più primitivi») e le più disumane storture della legge che protegge il Capitale calpestando i popoli. Fra chi comanda e chi subisce, fra la teoria e l’ambiguità del cinema che vede e potrebbe denunciare gli orrori del resto della società ma invece ne fa parte, fra la dittatura politica di ieri e quella del Capitale di oggi. Fra gli avvenieristici cartelloni pubblicitari sulla chirurgia robotizzata e il braccio in movimento di una vecchia gru arrugginita. Senza dimenticare di passare per il Covid, per il conflitto in Ucraina e per la morte della Regina Elisabetta, per il caro-benzina e per il caro-prezzi (ricordando esplicitamente come, ben più che la guerra, c’entri la speculazione), per Orban che per il personaggio-macchietta ungherese «non è un dittatore, è un grande leader: fa tutto sempre e solo per il bene del popolo» e perfino per il suicidio assistito di Godard. Del resto «possiamo avere il nostro successo solo quando gli altri muoiono», dirà il regista dello spot che si sente assunto solo per la recente dipartita del suo storico dop. Perché «se Goethe e Shakespeare fossero ancora vivi al giorno d’oggi, nessuno pubblicherebbe Elena Ferrante».
Basterebbe forse il cartello che segnala la via per il cimitero, rigorosamente privato, situato in mezzo a quelli che indicano i magazzini degli importatori di birra, per ragionare sulla stratificazione di elementi innestati dall’autore rumeno in ogni intuizione, in ogni stacco di montaggio e in ogni immagine di Do not expect too much from the end of the world, presentato (con evidente e abbastanza inspiegabile cecità di Cannes e di Venezia di fronte a un film di importanza, complessità e intelligenza semplicemente lapalissiane, e al contempo con un vero e proprio colpaccio da parte del team guidato da Giona Nazzaro) nel concorso principale di Locarno76. E in effetti oltre il muro di cinta che fa spazio al gigantesco url del sito pubblicitario del camposanto, fra le lapidi ma soprattutto fra il sacro e il profano, sfreccerà ben presto un runner in bicicletta con le pizze in spalla, mentre sullo sfondo già campeggia il cartello di vendita degli appartamenti che saranno costruiti, espropriando i lotti e trasferendo tutti i feretri per fare spazio a una speculazione edilizia che non ha tempo, interesse e umanità né per gli affetti né tanto meno per l’aldilà (ma ha il perverso senso dell’umorismo destrorso di chi tiene in bella vista sulla scrivania Il Capitale di Goldsmith «per fare uno scherzo ai partner di impresa che si irrigidiscono pensando sia quello di Marx»), proprio dove ora ci sono le tombe dei nonni regolarmente pagate da meno di sei mesi dalla protagonista Angela e dalla sua famiglia ma tecnicamente non legali, in quanto create dai proprietari del cimitero corrompendo chi di dovere per espandersi di qualche metro. È per questa continua stratificazione che tutta la prima parte di Do not expect too much from the end of the world (la seconda sarà al contrario un’unica inquadratura fissa, con una sola ellissi temporale a interrompere in due il pianosequenza) procede come un sostanziale mosaico di materiali frammentari, perfettamente legati nel senso e nella narrazione eppure del tutto eterogenei per pasta, saturazione e formato. C’è, come vedremo più avanti, un’altra Angela presa di peso da un film del 1981 e immaginata prima come controcampo e poi nel prosieguo della sua vita, c’è la pubblicità del ristorante che la Angela di oggi deve riservare «agli austriaci» (che si chiamano Goethe e sono pure imparentati con lo scrittore, ma non l’hanno mai letto) per la cena di lavoro, ci sono i suoi video verticali di TikTok, ci sono le schermate Zoom (magari, come già detto, filtrate da sfondi artificiali), ci sono i green screen dei set cinematografici di serie B (con tanto di magnifica e autoironica apparizione del regista tedesco Uwe Boll, specializzato in lungometraggi tratti da videogiochi), c’è una sospensione di cinque minuti in cui ritornare almeno a un briciolo di strazio umano nel completo menefreghismo della società filmando le oltre 600 croci in pochi chilometri che ricordano le vittime della strada più pericolosa della città con la sua corsia di emergenza usata di notte per correre, e a chiudere tutto ci saranno i titoli di coda forse più intelligenti di sempre, spartiti fra i cartelli scritti a penna e le schermate del computer, inframezzati da ulteriori citazioni letterarie che continuano a sfaccettarsi in aforismi e brillanti sintesi. Ci sono le calde saturazioni del 35mm di regime degli anni Ottanta, c’è l’inquietantemente simile 8K con filtro dorato del regime non dichiarato di oggi (qualcuno ricorda il famoso collant sull’obiettivo al momento della “discesa in campo” di Berlusconi per rendere l’immagine più calda e familiare?) che riempirà l’intero “lato B” del film, e c’è la grana sporca e contrastata del Super16mm in bianco e nero con cui Radu Jude fotografa invece le riprese principali del “lato A”. Del resto inizia non certo per caso già con uno schermo (e una stortura), Do not expect too much from the end of the world. Una sveglia del cellulare puntata alle 5:50 dell’11 settembre 2022, (ovviamente) domenica, che da giorno di riposo per antonomasia viene ribaltata in una vera e propria (ennesima, infinita) maratona di sfruttamento e di consapevolezza di Angela di essere sfruttata, ma di non poter fare a meno di accettare qualsiasi condizione al punto di entrare in sostanza a fare parte dello stesso sistema caricando la sua quotidianità, già oberata, di ulteriori e volontari impegni, compresi i continui e già citati video in cui interpretare (con la necessaria «fiducia nel pubblico» ripagata da decine di migliaia di visualizzazioni) un alter ego maschile e spaccone su TikTok attraverso il quale, «come Charlie Hebdo», lanciare strali necessariamente volgari contro l’intera società e le sue ipocrisie. Video che non a caso sono a loro volta filtrati nel cambio automatico del volto e della voce, proprio come sono filtri gli sfondi artificiali imposti per non raccontare una storia triste da un luogo troppo ameno, e più in generale sono filtri alla verità tutto il casting richiesto dall’azienda per trovare fra le vittime il volto giusto (scartando senza umanità alcuna quello «troppo spaventoso»), e poi la progressiva censura dei dettagli della storia del prescelto Ovidiu che, ciak dopo ciak, non può nominare la Russia in quanto partner commerciale, non può parlare delle scarse condizioni di sicurezza, non può dire delle diciassette ore di lavoro consecutive che avevano preceduto l’incidente, né mostrare la barriera arrugginita e fissata male che lo ha ferito, tolta a metà riprese per un ordine al volo dall’Austria. Un progressivo zittirlo e nascondere la verità fino a mettergli in bocca, attraverso cartelli à la Subterrean Homesick Blues di Bob Dylan ma questa volta vuoti e verdi, da scriversi già intrinsecamente falsificati in post-produzione, frasi non sue che magari potrebbero essere usate contro di lui nel processo ancora in corso, mentre poco alla volta fa sempre più buio anche intorno al set, e a tratti si mette pure a piovere.
Radu Jude, caustico e furibondo, disilluso e straordinariamente brillante, calca consapevolmente la mano sul sarcasmo, prima cucendo intorno alla sua protagonista una realtà da quindici o sedici ore di lavoro al giorno, a volte anche venti, con contratti co-co-co e collaborazioni occasionali come autista Uber, filmmaker per il casting, trasportatrice di lenti da un set all’altro, e nel frattempo appunto tiktoker, ma anche focosa amante in un incontro al volo prima di correre di nuovo all’aeroporto, e non certo in ultimo figlia con una madre e con i problemi di una vita privata da tentare di risolvere, e poi fissando (letteralmente) lo sguardo sulle manipolazioni del cinema, oggi come ieri arma di ogni mistificazione e ipocrisia. È per questo che, come anticipato, nelle infinite ramificazioni di senso di un film che affronta e dice praticamente tutto sull’oggi, al geniale autore rumeno non basta la contemporaneità di una sola Angela. Ne serve anche un’altra, quella interpretata nell’81 da Dorina Lazar in Angela merge mai departe di Lucien Bratu, che dai suoi colori sgargianti di propaganda contrappunta il bianco e nero sporco dell’omonima contemporanea cui dà corpo e voce una sublime Ilinca Manolache in un dialogo a distanza (o meglio, come da titolo del capitolo «una conversazione») fatta di analogie e di differenze fra la Bucarest (e il cinema) di regime di ieri e la Bucarest (ufficialmente) democratica di oggi (mentre il cinema parrebbe essere rimasto di regime), fino a riapparire insieme al co-protagonista László Miske (meglio conosciuto in Romania come Vasile, nome scelto a inizio carriera per nascondere la sua origine ungherese) negli stessi ruoli di 42 anni fa aggiornati alla senilità e alla pensione. Una sovrapposizione, quella fra Angela e Angela al volante sulle medesime strade, con cui il sempre più grande autore rumeno interroga il tempo, la dittatura (pseudo)comunista e quella di fatto di ogni sistema contemporaneo (politica, economica, neocoloniale – si vedano le foreste della Romania di fatto distrutte dagli speculatori austriaci del legname perché «i rumeni non ci dicono nulla» –, senza più nemmeno la possibilità di identificare un singolo nemico ma diffusa ovunque nei conflitti di interesse e nella corruzione, ma anche nel silenzio e nel disinteresse dei popoli che ne diventano complici), portando a guardarsi come campi e controcampi la città di ieri e quella di oggi, fin giù nel quartiere al tempo non ancora distrutto per fare spazio, dal 1984, al Palazzo di Ceaușescu. Una Bucarest ancora identica eppure opposta, o se si preferisce profondamente cambiata eppure ancora inquietantemente uguale, diventata forse ancora più invivibile, con molto più traffico di un tempo, con una situazione femminile che dalla sostanziale emancipazione e dalle otto ore di lavoro degli anni Ottanta ha lasciato il passo a una nuova e consapevole schiavitù, con il cibo povero ma sano diventato pura spazzatura, con la stanchezza casalinga diventata stanchezza su un lavoro senza più orari, e con l’addormentarsi davanti a Casablanca in tv che diventa un disperato sdraiarsi un momento in macchina di fronte a un reel a caso che scorre sul cellulare. Mentre la propaganda è rimasta semplicemente propaganda, la medesima dei film che furono prodotti sotto le pressioni e il controllo del regime: solo che la si preferisce chiamare marketing, giocando con le parole per farla risultare meno esplicita, e declinandola non più solo nel cinema ma anche nei nuovi linguaggi per i nuovi media. Eppure è sempre il cinema, quando messo nelle mani giuste, l’unico possibile antidoto a tutto questo. Un mezzo da cui potersi aspettare ciò che non ha senso aspettarsi dalla fine del mondo. Un mezzo con cui studiare la Storia e i documenti, con cui (ri)pensare il presente e il futuro, con cui denunciare, sussurrare filosofia e gridare a piena voce la rabbia, con cui apertamente combattere il sistema dall’interno. Un mezzo con cui disorientare, ogni singola volta, con stratificazioni impossibili di senso e con sempre radicali cambi di linguaggio fra un film e l’altro così come all’interno della stessa opera. Un mezzo attraverso il quale magari crescere oltre l’immaginabile, film dopo film, fino a ritrovarsi a quarantasei anni fra i più grandi registi di sempre, autori del capolavoro forse più importante e politicamente urgente dell’ultimo ventennio, e con ancora davanti chissà quanti altri film (narrativi, formali, sperimentali, politici, teorici, saggi) e quante altre cose da dire. Certo, bisogna avere la testa di Radu Jude. Una mente rara, capace di una sterminata visione di insieme e di sintesi e connessioni apparentemente impossibili, che lo eleva, con certezza sempre più incontrovertibile, non solo al più illustre nella miracolosa nidiata di straordinari filmmaker che fanno ormai da anni della Romania post-rivoluzionaria il miglior cinema del mondo, ma a uno dei più grandi geni contemporanei in generale.
Marco Romagna
(uscita 14 novembre)