Da Michele Apicella a Giovanni, passando per il Nanni del periodo diaristico e circumnavigando velocemente il Vittorio del precedente Tre piani, i film di Moretti hanno sempre sovrapposto persona e narrazione, realtà e finzione, ibridandole in forme non sempre nuove ma di sicuro fortemente personali, in un percorso autoriale unico nel panorama cinematografico nazionale. Nato come ossimorico punk ultraborghese in rotta con la tradizione della commedia all’italiana, capace già al terzo film (Sogni d’oro) d’innescare riflessioni metadiscorsive e un filo parodistiche tese (anche) a demolire il culto felliniano, il regista romano ritorna ora, con Il sol dell’avvenire, a guardare indietro, ai suoi film degli anni Ottanta, alla parabola del Partito Comunista Italiano e del comunismo tout-court, persino a quel Fellini dal quale si distaccava sprezzantemente quarant’anni fa mentre portava il suo vissuto nel cinema e il personaggio cinematografico nel vissuto. Il quattordicesimo film di finzione di Moretti, uscito prima in Italia e poi in Concorso a Cannes 2023, sembra quasi un testamento artistico dal quale può essere difficile ripartire ancora una volta, anche se, sia nel film che nelle interviste, il Nostro si affanna a sostenere il contrario.
Moretti vive da tempo una sorta di ripiegamento esistenziale, con le invettive di gioventù ormai trasformate in paternalistici rimbrotti a mezza bocca. Inevitabile rivedere le proprie posizioni in conseguenza del tempo che passa, forse meno consegnarsi in toto a quel cinema borghese “dei sentimenti” tanto osteggiato in precedenza, un mutamento di rotta che ha comunque portato in dote, nel primo e forse migliore capitolo di questa nuova fase, una Palma d’Oro a La stanza del figlio. La lodevole intenzione, in Tre piani, di criticare aspramente la propria generazione, catalizzatrice, opprimente, incapace di fare passi indietro anche in età avanzata, è annacquata da una realizzazione fin troppo spartana e dalla (fallita) prima volta in cui adatta un testo altrui, nello specifico l’omonimo romanzo di Eshkol Nevo. Dai tre piani in cui si divideva il palazzo al centro della vicenda (che rappresentavano, naturalmente, anche Es, Io e SuperIo) ai tre piani della narrazione di questa nuova opera, dunque, con l’aggiunta di un quarto, appena accennato, dove il regista immagina una sorta di sequel/remake di Un uomo a nudo di Frank Perry, film sessantottino per eccellenza con un monumentale Burt Lancaster che attraversava piscine a nuoto e rifletteva sul reducismo americano, dal Vietnam e da qualunque altro conflitto. Ecco, questa è una traccia per cominciare ad analizzare Il sol dell’avvenire, quella del reducismo …
Il reducismo morettiano è, ancora una volta, tripartito: dalla militanza politica, dalle vicissitudini esistenzial/amorose, dal suo cinema precedente. Ancor prima del periodo di attivismo girotondino, Moretti ha sempre rappresentato una voce intellettuale organica ma sempre “a lato” del Pci, fiero di ostentare indipendenza di pensiero in luogo delle cieca appartenenza, capace con Palombella rossa (e con l’oggi misconosciuto documentario La cosa) di riflettere in diretta sui cambiamenti epocali che la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss stavano portando/avrebbero portato nel mondo, sia occidentale che orientale. L’ormai riconosciuta capacità di prevedere (forse per caso, forse no) gli accadimenti dell’immediato futuro hanno grande parte in causa in quanto appena detto. Qualche esempio? Il disperato e urlato «Noi siamo uguali, ma siamo diversi, ma siamo uguali, ma siamo diversi» di Palombella rossa che anticipava sia la dissoluzione del comunismo italiano che i laceranti dilemmi etici dell’epoca di Tangentopoli immediatamente successiva, e il gran rifiuto di papa Melville in Habemus Papam precedente le dimissioni di Joseph Ratzinger. Anche quando sembra sbagliare vaticinio, come nell’inquietante finale de Il caimano a metà tra Petri e Shakespeare, dall’altra parte dell’oceano, a Capitol Hill e davanti ai tribunali newyorkesi che giudicano Trump, qualcosa di simile accade. In quest’ultimo arriva la presa di distanza, il cinema che cambia la storia, la citazione tarantiniana dopo averne osteggiato la violenza grafica, l’inverso rispetto alla profezia: la sezione del partito al centro del film nel film, incarnata nel segretario interpretato da Silvio Orlando, prende le distanze dall’intervento armato di repressione dell’esercito sovietico a Budapest (siamo nel 1956), abbraccia e solidarizza con i circensi ungheresi giunti nel quartiere, dona al Pci un’occasione per cominciare a percorrere una parallela strada di disimpegno dalla linea e indipendenza che ne avrebbe (forse) garantito la sopravvivenza. Il ’56 rappresentato è imperfetto, oggetti del presente invadono e aggrediscono il set senza che all’apparenza siano stati piazzati da nessuno, la contiguità tra le epoche è suggerita nella maniera morettiana di sempre, l’inserto senza spiegazione alcuna, alla maniera dei surrealisti d’inizio Novecento. Ma, agli occhi della bravissima Barbora Bobulova, quello che Giovanni sta realizzando non è un film politico, ma un film d’amore.
E giungiamo, dunque, al secondo reducismo, quello personale ed esistenziale. Una volta abbandonato, dopo il 1989, l’alter ego Michele Apicella, nel cinema dei Novanta Nanni mette se stesso al centro della scena, le sue gioie e i suoi dolori, malattie ed idiosincrasie. Linea mantenuta anche successivamente, anche se “nascosta” all’interno di narrazioni finzionali: la lacerante paura di sopravvivere al proprio figlio, il dolore della dipartita della propria madre, l’unico modo possibile di provare ad inquadrare la complessità del personaggio Berlusconi, indagando le ricadute del suo pubblico nel nostro privato, in quello di tutti gli abitanti di questo Paese, irrimediabilmente. Si parla di politica MENTRE si parla d’amore e di sentimenti, e viceversa, inscindibilmente. Il rapporto in crisi con la moglie, interpretata dalla sodale Margherita Buy, de Il sol dell’avvenire racconta un’incapacità, una menomazione, quella di rimanere pervicacemente attaccati alle proprie convinzioni, anche in maniera parodistica. Magnifica la scena sul set del giovane cineasta che gira un gangster-movie à la Gomorra (la serie), con Moretti che glorifica e sbertuccia la tipologia di radical-chic che lo comprende appieno, con Renzo Piano, Corrado Augias e tantissimi altri. La critica ad un blocco emotivo unita alla rappresentazione parossistica dello stesso: (anche) questo è Moretti, un livello ulteriore raggiunto negli ultimi film grazie all’occhio interno/esterno delle cosceneggiatrici Valia Santella e Francesca Marciano, portatrici di uno sguardo altro. Da tempo separato dalla compagna Silvia Nono, figlia del grande compositore e direttore d’orchestra Luigi, cerca con il cinema di riparare agli errori, di attaccarsi agli affetti, di scansare lo spettro della vecchiezza e della solitudine.
Il cinema, dunque. Che in questo film è continuamente presente, dalle citazioni di Penn e Demy (per chi scrive, la citazione/imitazione del Marlon Brando de La caccia è la scena più esilarante) ai continui inside-joke per aficionados dalle opere precedenti, che non anticipiamo per non rovinarvi il gioco. Dalla dimensione del ricordo giovanile di baci rubati nel buio di una sala all’odierno incontro con la produzione Netflix, che algoritmicamente chiede ai cineasti un timing preciso nella narrazione per evitare l’abbandono davanti allo schermo di un Pc/Smart Tv di utenti, non più spettatori, distratti e dalla noia facile. Da esercente, con l’occhio all’incasso e ai cambiamenti di gusti, Moretti fa uso dell’ironia e s’inchina alle indicazioni: cos’è il momento in cui tutti cantano Noemi, non il solito pop italiano ‘60/’70/’80 comunque presente con un magistrale uso di Battiato, se non un WTF? Non ho la possibilità di ricontrollare, ma a naso arriva intorno al dodicesimo minuto, proprio come da indicazioni …
La forza di Moretti è quella d’innescare, ad ogni uscita, dibattiti nazionali tra pro e contro, spesso poverissimi di contenuto perché preconcetti. Il nostro contributo, come sempre per chi ci segue, cerca di andare oltre, d’inseguire un’oggettività critica impossibile da raggiungere ma alla quale sempre tendere come fosse un nume tutelare (o il concetto di orizzonte di Edoardo Galeano). Però con Moretti, alla stregua di quello che accade nei suoi film e che abbiamo cercato di riassumere nelle righe precedenti, cuore e cervello non possono essere scissi: il corteo finale, che rimanda ad 8 e ½ rappresentandone però una uberversione, ci ha fatto sciogliere in un pianto insieme malinconico e liberatorio, un pianto da “pecundria”, per usare un termine partenopeo intraducibile se non con una lunga perifrasi. I morti e i vivi, gli amici e i nemici, i migliori e i peggiori anni della nostra vita in una rappresentazione ucronica che attraversa tempo e spazio. Se si è fatto parte di quella storia anche solo per un tratto di strada e per uno solo degli ambiti (politico, esistenziale, cinematografico, ripetiamolo un’ultima volta ancora) non si può non ringraziare Michele/Giovanni/Nanni ancora una volta, speriamo non per l’ultima.
Donato D’Elia