27 Maggio 2023 -

THE OLD OAK (2023)
di Ken Loach

Bisognerebbe forse partire dalle inarrestabili lacrime attraverso le quali intuire più che realmente vedere il suo magnifico finale, per riflettere su The Old Oak. Un ultimo atto in due parti, prima in casa e poi ancora nelle strade, che chiude il film ma soprattutto una carriera e un discorso politico portato avanti in tutte le sue possibili sfaccettature e declinazioni per oltre mezzo secolo, e che all’alba degli ottantasette anni a pugno chiuso di Ken Loach, in quello che l’autore inglese ha più volte dichiarato essere il suo ultimo lavoro, dopo aver tratteggiato l’inevitabile e sconsolato bilancio di un mondo che sembra non (poter) esistere più torna ancora una volta ad aggrapparsi disperatamente a quel che resta dell’umanità e della purezza dell’illusione. Come a dire che pur nella sfiducia, pur nella consapevolezza di avere perso, pur nell’amarezza di un’intera generazione, non si potrà mai smettere di andare ostinatamente alla ricerca degli ultimi, disperati, fiochi, isolati vagiti di Resistenza, degli ultimi brandelli di un sogno, degli ultimi flebili spiragli di speranza, anche quando sembrano riuscire a sopravvivere struggenti solo nello spazio dell’anelito e dell’utopia cinematografica, mentre nella rappresentazione del mondo reale quel che resta dell’umanità e della partecipazione collettiva della classe operaia sembra essere rimasto confinato solamente nel retrobottega chiuso ormai da anni di un pub, fra i ricordi e le coscienze personali dei singoli, in una stanza che cade a pezzi con un impianto elettrico lontano da ogni minima norma e nemmeno assicurata perché dichiarata inagibile. Una stanza che sarà ultimo reale tentativo di tendere una mano e di fare comunità insieme ai profughi siriani giunti con il loro carico di traumi e amarezze nella minuscola cittadina a Nord dell’Inghilterra, ma anche sabotaggio, distruzione, tradimento, vera e propria cospirazione di avventori e (veri/falsi) amici di una vita con cui far fallire ogni progetto di integrazione di TJ e mantenere così inalterate la propria routine e le proprie frequentazioni esclusivamente inglesi nell’unica birreria della zona. L’emblema di come un mondo diverso non sia più possibile, e di come non resti che qualche sparuta traccia di una Resistenza ormai individuale che non sembra più riuscire a farsi collettiva, in una società nella quale anche la classe operaia è diventata ciò che per decenni ha odiato, nella quale anche gli ultimi, diventati penultimi non per crescita personale ma perché c’è sempre qualcuno messo ancora peggio, hanno trovato un nuovo ultimo da odiare, da emarginare e su cui scaricare ogni colpa. Una società (de)cadente proprio come quella vecchia insegna del The Old Oak di cui continua ad abbattersi la K, che il proprietario TJ Ballantyne pazientemente e inutilmente rimette a posto illudendosi ogni volta di avere risolto il problema. Una società sempre più feroce e aggressiva come cani che senza motivo attaccano altri cani, in cui anche gli ex minatori dei paesini intorno a Newcastle che per una vita hanno votato a sinistra e combattuto insieme una lotta di classe contro le prevaricazioni del sistema hanno finito, non per reale colpa ma per pura e prolungata frustrazione, per paura e per stanchezza, per cedere al sistema e tradire amici e ideali fino a ritrovarsi a essere i primi reazionari, i primi classisti, i primi e più beceri razzisti. Ormai incapaci di solidarietà e di coesione, di comprensione e di fratellanza proletaria, in una fotografia della contemporaneità sociale e della crisi degli ideali politici del progressismo e del socialismo al contempo asciutta, minimale, potente, disincantata, lucidissima. Forte come un pugno. Al punto che quel finale, che dopo l’amarezza dei ripetuti fallimenti ritorna ancora alla partecipazione del Popolo con una dimostrazione di solidarietà e un’ultima manifestazione di gente e gonfaloni che dovrebbero essere semplicemente la norma in un mondo migliore di questo, nell’immaginazione di Ken Loach e del suo sceneggiatore di sempre Paul Laverty si impregna di una malinconia tagliente e amarissima, quasi fosse un controcampo della sarabanda morettiana nel finale de Il sol dell’Avvenire: forse l’ultima residua speranza, ma più probabilmente una negazione della realtà con cui abbandonare il verismo per immergersi nella consapevolezza di inseguire una chimera, un’illusione effimera, un qualcosa che la contemporaneità ha rigettato e che forse può ancora esistere solo su uno schermo.

Sia ben chiaro: non è il miglior lavoro di Ken Loach, The Old Oak. Un film, ambientato nel 2016, in cui non manca qualche pennellata di retorica (si veda il monologo in chiesa, con i suoi «serve fede per avere speranza» e «se smetto di sperare il mio cuore smetterà di battere») né qualche forzatura didascalica di personaggi un po’ troppo bidimensionali e granitici nella divisione fra buoni e cattivi, al punto che fra coloro che si oppongono al progetto di integrazione del protagonista, uno solo degli amici traditori di TJ risulterà sufficientemente complesso per incarnare un minimo di conflitto interiore, mentre gli altri si limitano a un funzionale quanto spietato muro contro muro. Eppure è un film a più riprese struggente, The Old Oak, disperato eppure mai pronto ad arrendersi, perfetta conclusione del pensiero coerentissimo e del cinema prettamente politico portato avanti per tutta la carriera e per tutta la vita dall’autore inglese, e forse ancora di più dell’ultimo trittico di lavori, che dalla personalissima resistenza alla burocrazia di I, Daniel Blake, dopo essere passato per lo sfruttamento sul lavoro di Sorry we missed you, chiude ora ogni possibile discorso con le guerre fra poveri che certificano la fine di ogni possibile lotta di classe, ma anche con l’ultimo, ostinato, sconsolato e forse inutile tentativo di tenere viva la speranza di un’unione, di uno spazio anche minimo in cui ancora trovare una mano tesa, di un’ultima sacca di Resistenza. Di intercettare ancora gli ultimi flebili spiragli di speranza e di armonia, fossero anche gli ultimi brandelli di un sogno destinato a non potersi mai compiere. Un film realizzato con attori in gran parte non professionisti, preferendo invece scegliere i volti degli esseri umani e le loro storie personali pronte a trasparire da ogni ruga e da ogni segno: i veri minatori e i veri profughi di guerra divisi fra i dolori rimasti alle spalle e le difficoltà di essere accettati nel loro tentativo di ricominciare una vita, le vere foto dei sollevamenti sindacali degli anni Ottanta e quelle scattate sul fronte, nei campi, in viaggio, nella nuova speranza, e poi ancora il reale incontro di lingue, culture e religioni differenti – con o senza velo, nella consapevolezza che anche le cattedrali «non sono della chiesa, ma degli operai che le hanno costruite». L’ennesima e disillusa immersione di Ken Loach nei dolori e nelle contraddizioni del Popolo, che arriva come ultimo film del concorso di Cannes 2023 con l’asciuttezza ormai assoluta del suo lavoro per sottrazione, con la sua trama semplice e lineare, con il suo sguardo straordinario nel saper trovare la giusta distanza per dipingere lo strazio (il cagnolino Marra sbranato sulla spiaggia, di cui si sente l’ultimo vagito lasciando la gratuità della violenza celata alla vista da un arbusto, salvo poi ritrovarla al momento della sepoltura ma anche della solidarietà che diventa reciproca, perché «non c’è vergogna nell’amore»), e con la sua durezza (la gelida indifferenza con cui gli avventori del bar guardano e commentano il video dell’aggressione razzista a scuola, o la virulenza con cui viene scacciata Yara ‘colpevole’ di aver dato assistenza a una ragazza svenuta riaccompagnandola a casa). Con i contrasti e le contrapposizioni su cui basano la sceneggiatura e la messa in scena, fra il dentro e il fuori di una stanza, fra la partecipazione di ieri che ancora emerge dalle fotografie di decenni di scioperi e lotte minerarie appese alle pareti e il cinismo neoliberista di oggi che sembra avere smantellato ogni principio e ogni ideale di una sinistra che non esiste più. Fra gli ipocriti, ignoranti e arroganti «non sono razzista ma…» e i pochi e spesso vani tentativi di rimboccarsi le maniche e fare ancora qualcosa per gli altri, poco importa se per bisogno interiore, per senso di giustizia o per senso di colpa e voglia di espiare dopo essere stato abbandonati dalla moglie e dal figlio. Conta solo agire, conta solo continuare a resistere, contro tutto e contro tutti, contro il sistema, contro l’evidenza, perfino contro le derive della classe operaia. «Non per carità, ma per solidarietà», specificherà TJ, mentre su consiglio della profuga siriana appassionata di fotografia Yara, che parla un inglese fluente e condivide la propria storia e quella della propria famiglia, tenta di organizzare una mensa in cui mangiare tutti insieme, per conoscersi e cementarsi, per integrare e integrarsi, per (ri)diventare comunità o magari tristemente scoprire come non sia più possibile farlo, come non ce ne siano più le condizioni, come una società ormai chiusa, incoerente, individualista e impermeabile, terrorizzata dal minimo cambiamento e diffidente nei confronti del (più) povero e dello straniero, preferisca scagliarsi contro un vecchio amico che ascoltarne le giuste istanze. Quelle stesse istanze che fino a pochi anni prima tutti avevano condiviso e portato avanti in prima persona, ma che adesso giacciono solo da qualche parte fra i ricordi, fra le disillusioni, fra le immagini di un qualcosa che sembrava a un passo e che invece ora appare lontano, non più raggiungibile, non più prioritario. TJ, a differenza loro, non ha mai cambiato idea né pelle, non ha mai perso la propria umanità e il proprio altruismo. Tanto che gli basta assistere per caso all’arrivo del pullman dei profughi e alla violenza gratuita di un ragazzo che rompe la reflex a Yara per averlo fotografato, per iniziare sin da subito a partecipare alla sua storia, ad ascoltarla, a darle una mano per resistere e ricostruirsi un’esistenza. A partire dalla riparazione di quella macchina fotografica che le ha «salvato la vita», destinata ad accompagnarla nei suoi viaggi e nella sua vita, a guardare insieme a lei verso nuovi orizzonti di fiducia e speranza, a intrappolare volti, situazioni, emozioni, vita reale. Da Aleppo fino al campo, fino all’arrivo in Europa e poi nel Nord dell’Inghilterra insieme a sua madre e i suoi fratelli, con quel costante pensiero al padre sequestrato dalle milizie e sparito nel nulla che qualcuno pensa sia ancora vivo e che qualcuno invece è convinto sia già morto. L’ennesima illusione, l’ennesima disperazione, l’ennesima occasione di dimostrare che la partecipazione può ancora esistere, o per lo meno di poterlo ancora immaginare. Con una proiezione pubblica delle diapositive, con una verità sbattuta in faccia, con il ritorno più inaspettato del cuore, della gente, della comunità. Fino a quel drappellone che unisce “Forza, Solidarietà e Resistenza” in marcia insieme a tutti gli altri del passato. Compagni per l’ultima volta, per sempre, o forse mai più. Ma è lo stesso bellissimo crederci, e continuare strenuamente a piangere e a combattere perché possa essere così. Fino all’ultimo commosso shukran di ringraziamento.

Marco Romagna

“The Old Oak” (2023)
113 min | Drama | United Kingdom / France / Belgium
Regista Ken Loach
Sceneggiatori Paul Laverty
Attori principali Trevor Fox, Debbie Honeywood, Laura Lee Daly
IMDb Rating N/A

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