Basta prenderlo semplicemente per quello che è, Strange way of life. Un divertissement più o meno su commissione, finanziato dalla celebre casa di moda Yves Saint Laurent che ha da pochi mesi deciso di espandersi in un ramo di produzione cinematografica, con cui Pedro Almodóvar si inoltra per la primissima volta in carriera sui sentieri cinematografici del selvaggio West, immaginando una breve vicenda d’amore omoerotico, contrastato e (im)possibile nei suoi venticinque anni passati dall’ultimo incontro, fra un bovaro e lo sceriffo alla ricerca di suo figlio. Un cortometraggio in inglese che supera di pochissimo i 30 minuti e che, al di là della tematica queer e del volo d’angelo sul rapporto irrisolto con se stessi, con le proprie responsabilità e con le proprie famiglie nello scorrere del tempo, non ha né vuole avere particolari ambizioni o sottotesti, ma che nel suo vortice di passione, ricordi, contrasti e stalli alla messicana è occasione per il grandissimo autore spagnolo di lasciar deflagrare ancora una volta tutta la spaventosa eleganza barocca della sua messa in scena, tutta la sua capacità di ragionare per immagini e lievi movimenti di macchina, tutta la grazia armonica del suo sguardo di dolore e malizia. Tutta la sua sconfinata classe anche quando l’inquadratura scende allusiva verso un culo. Basterebbe forse il flashback che, dopo il ritorno di Silva proprietario di ranch interpretato da Pedro Pascal nel villaggio in cui è sceriffo il Jake cui dà corpo e voce Ethan Hawke, la loro notte di ritrovata passione dopo un quarto di secolo passato lontani e la litigiosa separazione della mattina sull’inconciliabilità fra la posizione di un padre che cerca di salvare il figlio anche se assassino e quella di uno sceriffo che ha giurato di vendicare proprio la sua vittima in quanto vedova del fratello, procedono separati nella loro marcia verso la resa dei conti non riuscendo a smettere di pensare l’uno all’altro. Un momento che riporta i due protagonisti alla nascita e alla scoperta del loro amore, quando erano giovani pistoleri e cercavano di impressionare le puttane sparando alle botti di vino, salvo poi cedere alla reciproca attrazione e ritrovarsi sul pavimento a toccarsi e baciarsi appassionatamente fra loro, i vestiti bagnati da strapparsi di dosso, le donne che ai loro occhi – e a quello della macchina da presa – sembrano semplicemente scomparse nell’improvviso deflagrare del loro trasporto.
Ma c’è anche il momento del triello quando Silva tenta di far scappare il figlio e Jake è già ad aspettarlo dietro la porta, a impreziosire Strange way of life, con quel fucile che cambia continuamente bersaglio fino allo sparo volutamente non mortale e al nuovo amorevole accudimento in cui stare di nuovo insieme almeno per un po’, per lo meno fino alla guarigione. C’è anche il montaggio alternato sulla doppia nottata insonne di fronte al fuoco, con i due protagonisti travolti dai ricordi e dalla malinconia, dalle promesse e dai doveri, dai diversi ruoli ed obiettivi, dalla consapevolezza di essere strane forme di vita in un mondo ancora arretrato che li obbliga a nascondersi e a vergognarsi di se stessi. C’è anche quel foulard conservato da sempre in un cassetto, come ricordo ed emblema di un desiderio mai spento e di un amore segreto e impossibile da vivere, ma troppo bruciante per essere dimenticato. Istanti di un cinema visivamente e linguisticamente sontuoso e raffinatissimo, ma soprattutto fortemente emotivo e intriso del consueto amore assoluto del regista nei confronti dei suoi personaggi, per una sorta di mini-Brokeback Mountain ambientato oltre un secolo prima del film di Ang Lee in cui Almodóvar, girando in quell’Almeria che già fu set di Sergio Leone, immagina un West crepuscolare e polveroso sospeso fra l’uomo e la Natura, fatto di fuochi nella notte e di cavalli al galoppo, di lunghe attese e di nuovi incontri, di cinturoni sui comodini e di dettagli negli arredamenti che, fra i velluti che ormano la casa di Jake e gli scarni legnami di cui è fatto il ranch di Silva, in ogni oggetto e in ogni dipinto gridano la vicinanza della fine dell’epoca. Cerca la wilderness del cinema classico, la messa in scena di Almodóvar, e lo fa, con tanto di citazione esplicita dell’uscita di spalle dalla porta di Sentieri Selvaggi, mettendo in fila gli elementi fondanti e più peculiari del genere (la Natura, le parole, le pistole, gli animali, i silenzi, il già citato mexican stand-off, ma pure gli ambienti e i costumi) per innestarli in una breve parabola di segreti e di sensi di colpa, di tempo ormai passato e di impossibilità di risolvere se stessi, di responsabilità (di un tutore della legge, di un padre, di un omicida) e di conseguenze da affrontare. Ma anche del profondo coraggio nel vivere e sentire ancora il proprio amore nonostante tutto e nonostante tutti, nonostante la necessità di nascondere la propria omosessualità, nonostante la distanza temporale e geografica, nonostante le diverse scelte di vita e di posizionamento nei confronti della legge, nonostante il divario (in)colmabile fra chi cerca una salvezza e chi cerca una vendetta. Un breve film, proiezione speciale di Cannes76 prima di andare in rotazione su Mubi, fatto di mani e di sguardi, di pubblico e di privato, di evidente e di nascosto, di appassionato e di doloroso, che racconta la sua storia e fa detonare la sua passione senza particolari verità da svelare o punti su cui ragionare, eppure capace di far sprizzare il talento cristallino del suo autore da ogni singola inquadratura, da ogni singolo raccordo, da ogni singolo istante. Un esercizio di stile un po’ sterile? Forse, anzi, probabilmente, per quello che è in sostanza un gioco al cinema realizzato in pochi giorni, giusto per sfruttare la possibilità di farlo. Ma è uno stile di cui ci si accontenta molto volentieri, fastoso, elegante, personalissimo. Basta, come si diceva, prendere Strange way of life per quello che è, senza chiedergli quello che non ha né il tempo né il modo né l’ambizione di dare.
Marco Romagna