Basterebbe forse un gesto di Wang Bing al momento del suo arrivo in sala per la proiezione ufficiale, per riassumere il senso del suo sperimentale e magnifico Man in Black che, a soli cinque giorni dalla presentazione in concorso di Youth (Spring), lo porta ancora sulla Croisette di Cannes76 con un secondo titolo, radicalmente differente e anzi per natura dell’operazione cinematografica come si vedrà sostanzialmente opposto al primo, programmato fra le Séances Spéciales. Una sezione in cui le prime si tengono nella più piccola sala Agnès Varda, da raggiungere obbligatoriamente – come quasi tutte le sale del Palais Cannes, va detto – attraverso una piccola rampa di scale esterne non esattamente comoda per un corpo attempato e sofferente come quello del compositore ottantaseienne Wang Xilin (s)oggetto del documentario, per decenni vittima delle torture e delle purghe contro gli artisti ritenuti non sufficientemente allineati dal regime, e ora claudicante nei segni del tempo e di una vita di tormenti. Solo pochi spettatori in quel momento fermi nel giusto punto della coda per entrare hanno potuto notare l’arrivo del regista e del musicista insieme in frac dalla passerella del terzo piano, e forse ancora meno hanno fatto caso a come Wang Bing, con la naturalezza di un figlio e senza nemmeno doverci pensare, si sia subito fatto personalmente carico di offrire teneramente il braccio all’anziano uomo per aiutarlo a scendere, di portargli il bastone, di dimostrargli ancora una volta la sua stima, la sua ammirazione, il suo profondo rispetto, il suo sincero affetto, la sua dolce e inesauribile devozione nata ai tempi in cui gli aveva chiesto la colonna sonora (poi non utilizzata) per The Ditch a oggi unico suo film di pura finzione, e destinata a rimanere ben oltre le riprese di questo documentario ipnotico e fantasmatico. Con un gesto semplice, spontaneo, premuroso, capace di rivelare prima ancora che iniziasse la proiezione la profondità del rapporto con l’uomo narrato dal film, e di conseguenza la profonda umanità dello sguardo, e del linguaggio, con cui il regista ha portato sullo schermo e tradotto in cinema il suo volto, il suo corpo martoriato, la sua storia personale e paradigmatica di tutti gli artisti dissidenti perseguitati, la sua visione antitotalitarista e tragicamente disillusa eppure da sempre e per sempre marxista-leninista del mondo e del Novecento. La sua costante esplorazione della forma e dell’Avanguardia artistica, fra la tecnica personale con cui sentire arrivare la musica dal silenzio attraverso il controllo armonico del corpo, magari rievocando proprio quelle contorsioni umilianti e dolorose a cui l’uomo veniva costretto dalle torture nei campi, e la ben precisa valenza politica di ogni nota e di ogni strumento in ogni movimento di ogni sua composizione.
È per questo che, come si diceva, Man in Black è un film in sostanza opposto a Youth (Spring). Per il linguaggio apertamente sperimentale, radicalmente differente dai pedinamenti e dalla macchina da presa invisibile dell’altro lavoro, che vuole porsi come controcampo in immagini delle sperimentazioni in musica di Wang Xilin. Per la breve durata del film (un’ora esatta contro le tre e mezza abbondanti dell’altro) e del progetto (girato in un solo giorno contro cinque anni di osservazione). Per la costruzione certosina e suggestiva di una (ri)messa in scena che, negli ambienti del teatro Bouffes du Nord di Parigi, esibisce il reale (ma anche l’autorappresentazione dell’artista) con carrelli, steadycam, chiaroscuri, diaframmi aperti sui dettagli, tagli di luce caraveggeschi a illuminare il teatro vuoto e il lento trascinarsi del protagonista, con i suoi inchini di fronte a una platea immaginaria e con la sua intervista frontale di parole che sono quasi contrappunto dei silenzi e dell’emotivo risuonare delle composizioni, e che per lunghi tratti si perdono quasi sovrastate dai muri di suono e dai fiumi di musica a cui vogliono restituire il significato più intimo e politico fra contestualizzazioni storiche e parole-chiave appena percettibili. Ma soprattutto per la centralità assoluta di un’unica persona su cui concentrarsi e a cui in poco tempo affezionarsi, che dalla pletora volutamente informe di una classe operaia fatta di continue sostituzioni delle giovani pedine torna a parlare apertamente di Storia e politica senza però perdere il fuoco della più assoluta vicinanza umana ai singoli, che come Wang Xilin si mettono letteralmente a nudo di fronte alla macchina da presa per raccontare intimamente loro stessi, il proprio vissuto e i propri traumi. Specialmente quando la propria storia è quella di tutti gli artisti d’Avanguardia comunisti accusati dalle derive dittatoriali di quegli stessi ideali che per primi avevano condiviso e glorificato, tanto nell’Unione Sovietica di Stalin come nella Cina di Mao, di formalismo e occidentalismo controrivoluzionario, e per questo ostracizzati, perseguitati, imprigionati, torturati, condannati ai lavori forzati e magari a volte uccisi, nel passaggio senza soluzione di continuità da utopia a incubo.
Una storia (e una Storia) che emerge dal racconto crudo e in prima persona di Wang Xilin, ma soprattutto dai segni sulla sua pelle, dalle cicatrici, dalle rughe, dalle vene varicose, dalle vertebre consunte, dalle dita rattrappite, dagli apparecchi acustici che cercano di compensare quella perdita di parte dell’udito lasciata, come un dente, in un campo di rieducazione. Emerge dalle contorsioni rievocate del suo corpo, dai suoi gesti, dalle sue ritualità, dalla sua rabbia, dalla sua delusione, dai suoi gorgheggi straziati e dalle sue note suonate al piano, dai fragorosi deflagrare delle sue sinfonie che con le loro atmosfere inquietanti ricordano quasi le colonne sonore dei thriller musicati da Bernard Hermann, e che invece con le loro vibrazioni raccontano semplicemente la realtà, la rabbia, la sofferenza. Emerge dalle sue vive emozioni, che sgorgano inarrestabili da ogni suo sorriso e da ogni sua smorfia di dolore: il corpo, la voce, la musica. Wang Xilin, completamente nudo per tutta la durata del film, mostra senza vergogna i segni dei soprusi subiti, ma anche il suo rapporto fisico con l’ispirazione, con la composizione e con il profondo senso metaforico e simbolico di ogni sua scelta, trascinandosi lungo i corridoi fino al palcoscenico, alle gradinate della platea, fino al pianoforte e poi di nuovo sulle poltrone. Racconta delle sue prime esperienze musicali, della sua formazione a Shanghai, delle sue prime opere composte ancora da studente, della sua assoluta fede nel socialismo e della sua musica come una sorta di preghiera laica con cui raccontarlo, fino alla Rivoluzione Culturale, al «tradimento» degli ideali da parte della tirannia, alla chiusura culturale della Cina maoista e a quel suo discorso pubblico in favore della musica europea del Ventesimo secolo per il quale venire imprigionato, torturato, rinchiuso in manicomio, costretto ai lavori forzati, ma soprattutto alla più amara disillusione nel vedere gli ideali calpestati dall’ipocrisia della dittatura, e alla necessità di consacrare la propria stessa vita alla messa in musica delle voci e delle storie soffocate di tutti i perseguitati, alle loro sofferenze, alla loro riabilitazione. Al marxismo, quello vero, che mai e poi mai lo abbandonerà nelle sue più intime convinzioni. Una speculazione al contempo storica, politica, pan-artistica, formale e filosofica, con cui il trotzkista Wang Bing affronta un qualcosa di completamente differente dal suo ‘solito’ cinema per muoversi su sentieri e linguaggi ancora inesplorati della sua autorialità. Trovando quasi a sorpresa, in quella che sulla carta poteva sembrare una sua opera minore, uno dei suoi migliori lavori in assoluto, una vetta inattesa, una gemma cinematografica densa, incalzante, profonda, radicale, umanissima.
Marco Romagna