12 Maggio 2023 -

ULTIMO IMPERO (2023)
di Danilo Monte

Guardando il suo attuale stato di abbandono sembra quasi un nomen omen, quello della storica discoteca Ultimo Impero. Da vero e proprio ‘tempio’ della dance e della techno dei primi anni Novanta, il più grande d’Europa con i suoi quattro piani e le sue sette piste da ballo con spazio per oltre ottomila persone, ma anche con le sue due cascate e le numerose fontane dei suoi ricchissimi spazi esterni, a imponente rudere disperso fra le gelide nebbie delle campagne industriali dell’estrema periferia torinese, rifugio di erbacce e di rifiuti abbandonati, di vetri rotti e di bombolette esauste, di lacci emostatici e di siringhe usate. Come se l’Ultimo Impero fosse realmente stato l’ultimo vagito di un impero – l’impero occidentale del dopoguerra e del boom economico – e come se la fine della sua epoca (che poi è la fine della sua opulenza, ma anche del divertimento e del calore umano che ha simboleggiato, della libertà e dei sogni, della gioventù e degli anni Novanta-Duemila, delle trasgressioni di una notte e di chissà quanti baci fra le colonne) avesse segnato anche la fine delle illusioni di un’intera generazione: la fine della coesione, la fine della reciprocità, la fine della condivisione, la fine della socialità. La fine della società capitalista, forse, ma in una direzione totalmente opposta rispetto a quella da sempre auspicata dal Socialismo, che se lascia scricchiolare e andare in rovina il sistema lo fa solo per cedere il passo a un qualcosa di ancora peggiore e di ancor più iniquo, a una povertà sempre più diffusa, a una sempre maggiore disparità sociale, all’odio fra poveri, alla fine della voglia persino di lottare. Alle macerie che incorniciano e simboleggiano il degrado e l’abbandono di quello che sarebbe potuto essere e che forse per un po’ di tempo è anche effettivamente stato, e che invece si è rivelato l’anticamera di un fallimento sociale, dell’isolamento, dell’emarginazione, del ritorno di venti destrorsi che si speravano ormai esauriti e che invece sono tornati impunemente a sferzare sull’Europa.

Del resto già nel precedente corto-doc 2061, del quale è a questo punto chiara la funzione di tappa intermedia per evolvere i linguaggi del proprio cinema dall’ossessione (auto)documentaria alla messinscena, Danilo Monte si concentrava sulla caduta delle illusioni, innestando un parallelo fra le speranze, puntualmente frustrate sin dal momento dell’arrivo, di chi oggi decide di affrontare il mare per cercare una nuova vita in Europa e le promesse (da marinaio) di benessere e progresso che nel 1961, nel pieno dell’immigrazione interna da Sud verso Torino e la FIAT, intrinsecamente lanciava l’inaugurazione dell’avveniristico quartiere edificato per l’Esposizione Internazionale del Lavoro, con la sua monorotaia e la sua seggiovia che oggi giacciono in totale stato di abbandono. Le stesse suggestioni, la stessa realtà e lo stesso protagonista Mohamed Amine Bour poeta marocchino incontrato per caso dal regista nativo di Casoria ma torinese d’adozione durante la fase di location scouting che lo ha portato fino a quel che è rimasto della leggendaria discoteca di Airasca, su cui Monte, messe per un momento in pausa le sue esplorazioni autobiografiche e familiari nelle quali trovare una sempre più perfetta aderenza fra vivere, osservare e osservarsi (prima il rapporto da riallacciare con un fratello in Memorie: in viaggio verso Auschwitz, poi le difficoltà della fecondazione assistita in Vita Nova, e infine la chiusura della trilogia con l’agrodolce del primo anno di vita del suo piccolo Alessandro appena venuto Nel mondo), decide di cucire gli intensi venti minuti del suo esordio alla finzione. Un film intelligentemente breve, misurato, apparentemente semplice nell’intreccio e invece profondo e complesso nelle possibili stratificazioni della sua metafora e nella sua insistita ricerca di antitesi e contrapposizioni visive e di senso. Un film evocativo tanto nella sua location tarkovskiana quanto nei suoi gesti, nei suoi simboli e nei suoi silenzi, ostentatamente politico nella tragica realtà sociale e nei personaggi che decide di rappresentare ma al contempo intimo, straziato, sentitamente umano. Consapevolmente disilluso, eppure inaspettatamente dolcissimo.

Presentato in concorso al Bellaria Film Festival 2023, Ultimo Impero è la ricerca disperata di un barlume di umanità dove ormai sembra non esserci altro che nebbia, isolamento, alberi ghiacciati, squallore. La parola è pressoché superflua: basta la carcassa di un luogo simbolico da filmare d’inverno alle prime luci dell’alba, basta un giovane immigrato senza soldi né documenti né speranze, basta una vecchia puttana parcheggiata nella sua utilitaria di fronte all’ingresso, basta il pudore di una violenza che rimane fuori dal campo a scatenare un suo gesto disinteressato, e basta un ciondolo lasciato come pegno d’eterno ringraziamento e d’affetto, fosse anche l’ultimo avere rimasto, all’unica persona che non ha voltato lo sguardo dall’altra parte. Non importa chi sia stato ad aggredire il ragazzo, se sia stata una vendetta o l’ennesimo manifestarsi violento del razzismo, esattamente come poco prima non contava la sua necessità di arrangiarsi rapinando un tossico per riuscire a mangiare un panino – «Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame», diceva De André in tempi non sospetti, e del resto non vogliono assolutamente essere giudicanti il punto o lo sguardo di Danilo Monte, discepolo di Alberto Grifi coadiuvato ancora una volta da Alessandro Aniballi alla sceneggiatura e dalle sapienti mani sulla timeline del montatore Fabio Bobbio, ma esattamente al contrario vogliono affezionarsi ai personaggi, sentirli, condividere il loro percorso, battere i denti insieme a loro nel gelo dell’alba. Quello che conta è invece la pietà, è lo slancio umano, è il reciproco soccorso nelle difficoltà, è la più inattesa e insperata tenerezza che si manifesta all’improvviso fra sconosciuti, dopo chissà quante volte essersi incrociati senza essersi mai realmente guardati. È lo sfiorarsi (im)possibile di due anime emarginate, di due ultimi che reciprocamente, senza interessi né sentimenti, si tendono la mano e si aiutano a rimettersi in piedi per poi dividere nuovamente le proprie strade, in una finzione che affonda le radici nel reale, nella società, nella politica, nei rapporti umani, nel calore di un cuore che scioglie il ghiaccio della notte. È la dignità del popolo che vince almeno per un momento sulla povertà, sull’amarezza, sulla mancanza di diritti, sulle iniquità, sulle macerie fisiche e sociali che circondano i protagonisti come scheletri di un mondo scomparso. Fino a poter quasi sentire risuonare ancora quella musica di un tempo, come se l’umano da sbiadito ricordo in low-fi su silicio fosse finalmente riuscito a riemergere in quei saloni e fra quelle piste. Di nuovo carne, di nuovo ossa, di nuovo sudore, di nuovo un abbraccio, di nuovo la cassa in quattro quarti di Oasis, ad accompagnare un viaggio che ancora può e deve continuare, arrivare lontano, vivere l’utopia di un mondo migliore e trasformarla in realtà. Che poi, a ben vedere, nient’altro è che quello che fa abitualmente il cinema. Chissà fin dove potrà giungere quello in evoluzione di Danilo Monte, dopo questo salto verso un qualcosa di così totalmente diverso eppure così perfettamente coerente con il suo percorso in cui vita e immagini sono la stessa cosa. Potenzialmente molto in alto.

Marco Romagna

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