È sempre più un affare di famiglia il cinema, questa volta a colori, di Philippe Garrel. A partire dai tre figli Louis, Esther e Lena chiamati a raccolta per interpretare i tre figli dell’ennesimo suo evidente alter ego, proprio come lui drammaturgo e regista e proprio come lui ultimo depositario di un qualcosa che non esiste più, consapevolmente fuori dal tempo, orgogliosamente rimasto nel passato e ineluttabilmente proteso sul viale dell’inevitabile tramonto. Una chiara proiezione in cui il cinema romantico d’amori, desideri, tradimenti e rapporti familiari del settantaquattrenne autore francese, figlio della Nouvelle Vague e delle Avanguardie più sperimentali e poi riplasmato dal suo vissuto sempre un’ottava più in alto, si rispecchia nella compagnia teatrale di burattini che l’ormai attempato Simon ha fondato come sogno di una vita e continua a portare avanti con passione e abnegazione fino al suo ultimo giorno, insieme a quei tre figli che dopo la sua morte dovranno inevitabilmente raccoglierne il lascito ma anche fare i conti con una contemporaneità non più interessata al teatro itinerante per bambini. È per questo che Garrel non cerca necessariamente un erede che ne possa continuare nelle medesime forme il percorso cinematografico. Al contrario, concede amorevolmente ai (suoi) figli di tradire il sogno di famiglia perfettamente consapevole di come sia l’unico modo per poterlo realmente portare avanti, con sguardo magari malinconico ma del tutto conscio di come il mondo (del cinema, ma non solo) sia andato ormai da altre parti, e di come sia inevitabile cambiare strada, o per lo meno compiere un giro differente, per traghettare l’antico verso il futuro. Tanto che in qualche modo è proprio Philippe ad andare incontro al figlio Louis, con quelle lunghe parti di recitazione e di continua messa in scena (dietro al muro modulando le voci e alzando i pupazzi, ma anche a tavola, in famiglia, in una serie di imitazioni da fare indovinare agli astanti) che sono da sempre il nucleo centrale e teorico del cinema da regista di suo figlio. Del resto Le Grand Chariot, presentato ancora una volta in concorso a Berlino tre anni dopo Le sel des larmes che già analizzava il rapporto atavico fra se stesso, il padre Maurice e il figlio Louis, non vuole in alcun modo essere il testamento o il film di commiato di Philippe Garrel. Semplicemente una sua ulteriore presa di coscienza, una riflessione sulla sua senilità personale e su quella delle forme considerabili ormai tradizionali della sua arte, sulla sua consapevolezza della non (più) riproducibilità di un’autorialità formatasi negli anni Sessanta e ora, nei nuovi immaginari ipertrofici della società, del cinema industriale e dei nuovi media, inevitabilmente percepita come passata, superata, morente. Fino a riderci sopra, fino a cercare la situazione spiritosa e la battuta nel tempo comico più amaro e fulminante (specialmente della nonna comunista, atea orgogliosamente sbattezzata e fucina inesauribile di aneddoti passati, ma anche portatrice di una mentalità antica che forse non potrà mai capire il senso delle modalità di rivendicazione del gruppo Femen con cui Lena si è infortunata a un polso manifestando all’Eliseo), mentre i consueti poligoni di amori che esplodono, si sfaldano e magari teneramente si re-infiammano dopo qualche tempo di sospensione sotto la cenere si innestano questa volta in un discorso più ampio, del quale i punti focali sono il transfert generazionale e il testamento artistico, la famiglia Garrel nelle diverse generazioni e le loro diverse idee su/di quel cinema in cui tutti sono nati e cresciuti, e del quale non potranno mai fare a meno.
Solo la mediana Martha interpretata da Esther – forse proprio per questo l’unica che cambia nome mentre i personaggi di Louis e Lena rimangono Louis e Lena, come a porre una maggiore distanza fra i pensieri del personaggio e quelli non necessariamente coincidenti della persona – continua a ritenere anche nel sopravanzare della crisi economica che la vera Resistenza sia nella riproposizione dei testi classici, nel portare avanti le vicende e i dialoghi di Pulcinella per come sono sempre stati. La sorella minore le parla invece della necessità di riadattarli, di riscriverli modernizzati come unico modo per non disperdere la tradizione nel “vecchio”, mentre il fratello maggiore deciderà invece di passare al teatro canonico abbandonando la compagnia e l’utopia diventata realtà del padre e della nonna, per inseguire tanto il mercato quanto la propria diversa visione artistica, per superare la stanchezza di una vita sempre più difficoltosa e con sempre meno pubblico, per trovare una nuova e personalissima strada con cui, senza dovere più stringere la cinghia per far quadrare i conti, continuare a esprimere il talento e la passione di tutta la famiglia. Di sicuro, per lasciarli esprimere a Philippe Garrel, al co-sceneggiatore di una vita Jean-Claude Carrière e alla raffinata fotografia in 35mm dell’altrettanto fedelissimo sodale Renato Berta bastano pochi delicati tocchi di sublime. Bastano le esigenze sceniche dei burattini che inevitabilmente portano padre e figlia ad abbracciarsi dietro al muretto del teatrino poco prima della morte in scena maggiore aspirazione poetica di ogni attore. Basta un’impercettibile luce in fondo agli occhi quando Louis ed Hélène, fresca ex-moglie del pittore/attore/amico Peter che dopo esserle stato vicino in gravidanza l’ha abbandonata per l’amante Laure lasciando il figlio neonato, si vedono per la prima volta e capiscono immediatamente di piacersi. Bastano due mani che si sfiorano appena nel momento in cui, dopo lo spettacolo interrotto e i singhiozzi, si ricomincia mettendo in scena la sconfitta della morte. Basta la sofferenza di un tradimento confermato dall’odore di un’altra su un foulard, basta un bacio chiesto per frustrazione e negato per amore offrendo invece l’ospitalità e il supporto di una sincera amicizia, e basta la dolcezza di un dialogo in cui non serve dichiararsi, ma è più che sufficiente guardarsi per dirsi che non si può più fare a meno l’uno dell’altro. Basta l’incommensurabile e straziata tenerezza una nonna progressivamente sempre più confusa e meno lucida, in uno sfaldarsi della sua mente e del suo corpo che è lo stesso del mondo dei protagonisti che progressivamente crolla come un castello di sabbia, o magari proprio come il grande carro del teatrino dei burattini distrutto dalla furia di un temporale notturno. Ma basta anche una visita inaspettata che si materializza dietro una finestra nel magnifico, toccante finale. In una storia di amore, morte, famiglia, successo, amicizia, fallimento, autodistruzione, teatro, lutto e follia. Una storia di declini e di necessità di (reinventarsi per) andare avanti, di abbandoni e di ritorni, di nascite e di perdite, di sepolture e di esibizioni, di confronti e di testimoni che cambiano mano. Una storia di sorrisi, di momenti di dolore e di nuove speranze dettate dalla purezza sconfinata dei sentimenti che nascono, che crescono e che si ritrovano, restituendo la gioia, la speranza, il senso del continuare a guardare avanti. Una storia in cui le voci fuori campo di tutti i protagonisti si alternano a portare avanti la narrazione con un sempre nuovo punto di vista, mentre la vita e la morte scorrono negli slanci artistici e negli incubi notturni, nelle mancanze e nei tentativi (o meno) di rinnovarsi, nell’amicizia fra Louis e Peter che continua senza gelosie (anzi con il sollievo del fedifrago colpevole che sa che la ex e il figlio di cui lui manco era stato in grado di ricordare il nome al momento di registrarlo in ospedale sono ora in ottime mani) anche quando è ormai conclamato l’amore del primo per Hélène, ma al contempo nelle tele appena dipinte che Peter distrugge quando Laure lo abbandona avvilita, disorientata e spaventata dal suo sragionare, dal suo sprecare ogni occasione, dal suo malessere masochistico da artista eternamente insoddisfatto troppo profondo per essere condiviso in una vita insieme. O forse no. Forse è solo questione di ricominciare ad ascoltare il cuore, di ritrovarsi, di sorridere ancora. Di andare avanti, nonostante tutto. Come un cinema prezioso che dopo il suo autore non esisterà più, ma che per adesso è ancora qui a emozionare, a mettere i brividi, a commuovere. A fare stringere ancora una volta tutti assieme, i Garrel e il pubblico, come una grande famiglia di carne e di celluloide.
Marco Romagna