27 Novembre 2022 -

IL CRISTO IN GOLA (2022)
di Antonio Rezza

«Il potere che cercava
il nostro umore
mentre uccideva
nel nome d’un dio
nel nome d’un dio
uccideva un uomo
nel nome di quel dio si assolse
Poi, poi chiamò dio
poi chiamo dio
poi chiamò dio quell’uomo
e nel suo nome
nuovo nome
altri uomini
altri, altri uomini
uccise
Non voglio pensarti figlio di Dio
Ma figlio dell’uomo
Fratello anche mio»
Fabrizio De André – Laudate Hominem

«Fare un film su Cristo senza alcun ausilio produttivo, senza la sicurezza che il film esca in sala, senza pagare nessuno e soprattutto senza ricevere soldi in compenso è un’esperienza che ogni ateo praticante dovrebbe imporsi1», dice lo stesso Antonio Rezza a proposito della sua nuova sortita cinematografica Il Cristo in gola, che giunge ad aprire fuori concorso il 40mo Torino Film Festival dopo una genesi lunga quasi vent’anni di rapide riprese e lunghissime interruzioni. E ancora «fin quando io dirigo soltanto il film è filologico, specularmente a quello di Pasolini di cui voleva essere un omaggio. Da quando io interpreto il film, dopo un quarto d’ora dall’inizio, il film mi sfugge dalle mani perché io (attore) mi ribello (a me stesso autore). Ho iniziato a urlare per la disperazione, perché non sapevo cosa fare. Non riuscivo a recitare quello che mi ero scritto. La ribellione all’autore è qualcosa che ogni attore dovrebbe infliggersi, purtroppo questo avviene solo quando uno non è retribuito. È veramente triste. Ho il massimo distacco dalla figura dell’attore prezzolato che si cala in stati d’animo che non sono i suoi, che interpreta quello che non è lui. La mia è una finzione massima, ma è molto più vero di un attore che si cala in un personaggio2». Una scissione fra l’ambizione registica e il momento della prestazione attoriale che è forse il principale punto fondante della sua personalissima rivisitazione squisitamente materialista, antifilologica, iconoclasta e radicale delle pagine del Vangelo, che toglie alla figura di Gesù Cristo la parola, e quindi la fondativa possibilità di predicare – «In principio era il Verbo» –, per sostituirla con la gestualità esasperata, con la postura innaturale, con una performance che si spinge ben oltre la mera recitazione, realizzata questa volta senza la collaborazione di Flavia Mastrella a sua volta impegnata in solitaria con La legge: la costituzione recitata dagli animali ma con le medesime inquadrature sghembe e fuori asse, esacerbate e originalissime, con i medesimi mascherini tremolanti, con la medesima pasta digitale (cangiante, come già in Samp ma questa volta in bianco e nero, dal low-fi della MiniDV all’attuale 4K a seconda della tecnologia disponibile nel momento della singola ripresa), con la medesima ricerca linguistica attraverso il corpo nello spazio, con il medesimo consapevole rifiutare e distruggere ogni grammatica e convenzione per poter poi ricostruire in nuove forme, e con la medesima anarchica scorrettezza, così lontana dalle derive ovattate della medietà contemporanea, del teatro e del cinema fatti insieme. Un film, ideato e realizzato da Rezza sin dal 2004 per «confrontarsi con un collega3» (che allo stesso modo predica nel deserto, che allo stesso modo recita un ruolo, che allo stesso modo trova forme e parabole per comunicare ed entrare nell’immaginario), che alla spiritualità preferisce senza ombra di dubbio il corpo e la performance, al λόγος della parola e della logica divine preferisce l’afasia e l’urlo straziato della gola umana, all’iconografia dei simboli sacri preferisce il dadaismo di una Pietà come semplice posa ormai del tutto destrutturata, artefatta e forzosa, da ripetere all’infinito fino a svuotarla di ogni possibile significato. Come a dire che, nell’ottica fieramente atea di chi non crede in Dio, è l’uomo che ha inventato la sacralità, e tocca all’uomo liberarne le icone dalla gabbia di imposti significati riportandole alla loro essenza di semplice immagine. Una personale demolizione del rituale, e forse pure dell’antropologia (non solo della religione) e della raffigurazione in senso lato, che non potrà che deflagrare in un’Ultima Cena letteralmente annegata nelle acque di Ostia, dove l’eucarestia è disgustoso cibarsi e perfino il battesimo danza sui confini della punizione corporale, o ancora in una Via Crucis che si propaga per le generazioni ma è sempre e solo messinscena, finzione, pura rappresentazione iconica a cui solo i dogmi della Fede (e quindi del Potere) danno significati e sacralità non certo intrinseche, come una non-morte da cui nemmeno serve risorgere, basta e avanza urlare, per poi riscoprirsi nemmeno scalfiti da ciò che in realtà non esiste.

Ma non è la blasfemia, più volte lambita lungo i sentieri surreali delle esasperazioni rezziane ma mai realmente vilipendio o mancanza di rispetto verso una figura di Cristo al contrario intrisa di tormento e misericordia e talmente superiore agli umani da non avere nemmeno bisogno della ‘loro’ parola, il punto de Il Cristo in gola. È semmai ancora una volta il corpo, come carne, come espressione, come rappresentazione, centro di un discorso che non ha bisogno di Verbo sul Potere, sull’ateismo, sulla ribellione, sull’immagine, su ciò che siamo e ciò che (non) crediamo. Sono i corpi degli attori invecchiati durante la lunga lavorazione, sono i corpi sofferenti che implorano il miracolo, è il corpo ormai rugoso di saggezza popolare del diavolo tentatore, è il corpo in divisa militare e voce femminile dell’Arcangelo Gabriele messaggero, è il corpo di un padre, di un figlio e di un nipote, è il corpo con il ventre gonfio della Madonna di fronte a Giuseppe, o forse di fronte all’evanescenza dello stesso Dio. É il corpo nello spazio (di Matera, a sua volta assurta a sostanziale icona votiva con Il Vangelo secondo Matteo, oppure invisibile dietro una colonna) ed è il corpo nel tempo, con i suoi segni che si accumulano anno dopo anno; è il corpo da salvare ed è il corpo da adorare, è il corpo da tormentare ed è il corpo (grande e piccolo) da crocifiggere. Perfino quelli di plastica dei bambolotti impiccati per suggerire, in uno dei tanti colpi di genio di Rezza, la Strage degli Innocenti, a ben vedere nient’altro sono che corpi, così come rappresentano altrettanti corpi umani le croci piantate come un macabro serpentone nei – letteralmente – martellanti titoli di testa. Ed è ovviamente un corpo, anzi il corpo, quello rigorosamente materico, per quanto effettivamente magro e quindi simile a quello dell’iconografia classica di Gesù, che la strabordante presenza scenica di Antonio Rezza concitatamente muove e contorce nel suo Cristo muto. Un corpo totalmente umano, non certo divino, che nell’ennesima insubordinazione di Rezza a ogni autorità e a ogni Potere – questa volta perfino all’autorità e al potere di se stesso in quanto autore – ha preso il controllo sulla mente del film e ne ha stravolto da attore le aspirazioni da regista. Un corpo nel quale è possibile rintracciare quella tangibilità concreta di carne e sudore così opposta alle intrinseche astrazioni del concetto stesso di Fede e dei suoi ideali principi fondanti, come un personalissimo ecce homo con cui rivendicare ancora una volta l’inesistenza del sacro se non come menzogna e convenzione da rifuggire. Un corpo con cui ribellarsi, contro tutto e contro tutti. Eppure nemmeno la morte può salvare dalla sua mediocrità un’umanità che si costruisce da sola la croce, giorno dopo giorno, fra i sorrisi enigmatici dei più ipocriti e il silenzio di chi sta attorno, neanche capace di ringraziare quando viene miracolato, quando Cristo lo allevia prendendo su di sé la sua sofferenza. Come se ne assorbisse il dolore, senza bisogno di parlare perché le parole sarebbero superflue e anzi sono ad appannaggio unico dell’uomo e del demonio, nell’alveo surreale e anarcoide (ed è qui che è forse possibile rintracciare una possibile dialettica con Ciprì e Maresco, forse non tanto con “l’anti-biblico” Totò che visse due volte, che faceva un lavoro ben diverso, quanto con i personaggi intervistati in Cinico TV) di un’umanità mostruosa, che pretende che l’acqua diventi vino, che i pani e i pesci si moltiplichino magari già sotto forma di panini imbottiti, e che finirà nella perdita di controllo di Cristo sui suoi poteri per sdoppiarsi, tradire, ripercorrere se stessa e destrutturare sempre più gli episodi evangelici. Semmai è Ponzio Pilato – e quindi l’uomo – che in uno dei più classici fuori-sincrono rezziani ha bisogno di ricorrere alla dialettica (e a qualche stralcio sul Potere, ma non certo per caso parossisticamente declamato da una latrina, tratto da L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner), proprio come parla continuamente l’anziano demonio interpretato da Maria Bretagna nelle sue surreali tentazioni («Se sei il figlio di Dio devi far piovere. Ti sei iscritto alla SIAE?») e proprio come parlano le voci alla radio di Peron, Evita e Videla che si intrecciano quasi incomprensibili e volutamente non sottotitolate. In un’altra lingua, esattamente come il dolore esistenziale di Cristo, come l’ambiguo grammelot della Madonna che pianterà i chiodi nelle mani del proprio figlio e poi ricomincerà da capo a essere madre (e/o nonna) di un’immacolata sacralità autoproclamata, o come il mutismo del dormiente Giuseppe che si romperà per diventare – in dialetto – l’ennesima critica. Un’arma di quel Potere terreno sulla cui esistenza e pericolosità non esistono possibili dubbi, credenze o opinioni, solo un’amara constatazione, e il sacrosanto diritto/dovere di ribellarsi ancora una volta. Proprio come Il Cristo in gola, con la sua genesi antiproduttiva e totalmente indipendente, si ribella in ogni forma, dettaglio e intuizione a tutto ciò che ha a che fare con il cinema industriale e alle sue prassi, compresa la coerentissima scelta di affidare il film a una distribuzione più piccola possibile. Proprio come l’attore Rezza si è ribellato al Rezza regista, fino a quando il Rezza uomo ha ancora una volta trasgredito a entrambi, trovando nel suo inizialmente inatteso erede Giordano forse l’unica possibile, potentissima, impertinente chiusa per il film. «Fine. Così. All’improvviso. Senza cristianesimo. È più pulito». La purezza di un’Avanguardia che no, non rimane strozzata in gola. Urla con tutta la sua forza, per l’ennesimo nitido capolavoro di un genio assoluto che come al solito ben pochi si sforzeranno di comprendere, preferendo trincerarsi dietro al consueto falso moralismo.

Marco Romagna

“Il Cristo in gola” (2022)
78 min | Drama | N/A
Regista Antonio Rezza
Sceneggiatori Antonio Rezza
Attori principali Gianmaco Balsamo, Maria Bretagna, Federico Carra
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

INSIEME INSIEME (2022), di Bernardo Zanotta di Marco Romagna
GIGI LA LEGGE (2022), di Alessandro Comodin di Marco Romagna
LES AMANDIERS (2022), di Valeria Bruni Tedeschi di Bianca Montanaro
ESTERNO NOTTE (2022), di Marco Bellocchio di Marco Romagna
EO (2022), di Jerzy Skolimowski di Bianca Montanaro
PIANO PIANO (2022), di Nicola Prosatore di Marco Romagna