11 Settembre 2022 -

TUTTA LA BELLEZZA E IL DOLORE – ALL THE BEAUTY AND THE BLOODSHEAD (2022)
di Laura Poitras

Insignito, dalla Giuria presieduta dalla presidente Julianne Moore, di un generosissimo Leone D’Oro per il miglior film alla 79ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, All the Beauty and the Bloodshead è un lavoro documentaristico compilativo e semiologico ancor prima (e ancor più) che cinematografico, diretto dalla 58enne statunitense Laura Poitras, già titolare di un Oscar ottenuto per la sua opera più celebre, quel Citizenfour incentrato sulla figura di Edward Snowden e sullo scandalo legato alle operazioni segrete dell’NSA americana. Ma se quello era un docufilm strutturato come un thriller politico/spionistico, sull’onda lunga dei film “paranoici” di registi come Pakula e Pollack nel periodo nella New Hollywood e con una cornice talmente iconica da essere ripresa pari pari nel film di fiction dedicato alla vicenda da Oliver Stone nel 2016, Snowden, dove la Nostra subiva l’onere/onore di diventare un personaggio vero e proprio della sceneggiatura interpretato da Melissa Leo, ma soprattutto era un instant movie talmente miracoloso nell’essere “al posto giusto al momento giusto” che, quando nel 2016 Laura Poitras aveva cercato di ripetere la medesima operazione con Julian Assange protagonista di Risk e qualcosa non aveva funzionato, nessuno già al tempo si era stupito più di tanto, questa volta l’ambizione è se possibile più alta: usare la fotografa, attivista e performer Nan Goldin come simbolo della resilienza (sostantivo quanto mai contemporaneo) e dell’incapacità di uniformarsi al Sistema di uno spirito libero, dotato di particolare sensibilità e con un talento fuori dal comune. Un’intera vita consacrata al “dark side”, alle avanguardie artistico-culturali (specie quelle comprese nel periodo tra la metà degli anni Settanta e Ottanta), alla frequentazione di marginalità considerate tali dal perbenismo intossicante insito nella società statunitense fin dalla sua formazione. Traumi insanabili subiti fin dalla preadolescenza, un indicibile abuso e la morte per suicidio dell’amata sorella, e un’insopprimibile voglia di amare e di sperimentare, di non permettersi per nulla al mondo la costrizione in solitudine, di provare sulla propria pelle, come da titolo, tutta la bellezza e le ferite (spargimento di sangue) del mondo. Spirito “barricadero” giunto intatto fino ai nostri giorni, quando la Goldin, insieme al collettivo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now), si fa portavoce della battaglia contro la Purdue Pharma della famiglia Sackler, produttrice dell’oppiaceo OxyContin, prescritto con leggerezza e causa di mezzo milione di morti per overdose. Le overdose di eroina degli anni Ottanta fanno il paio con queste di nuovo tipo, legalizzate da una nazione che sembra, ancora una volta, cercare la distruzione sistemica della debolezza e della marginalità in nome del profitto e del capitalismo.
Il film ha una struttura ondivaga che oscilla tra il presente e il passato, alternandoli in maniera non sempre brillante, impostando due discorsi (addirittura tre, a tratti) che appaiono sempre paralleli e con pochi punti di contatto, nonostante quanto detto in precedenza. Poitras sa che la forza del personaggio principale, anche co-produttrice del film, va solo imbrigliata e canalizzata, e nel farlo, purtroppo, sembra depotenziare l’assunto invece di rafforzarlo. S’inizia con le riprese delle manifestazioni del PAIN in alcuni importanti musei (i Sackler “ripuliscono” la propria immagine facendo gran sfoggio di mecenatismo artistico) e quindi ci si aspetterebbe, vista anche la carriera precedente della cineasta e la sua comprovata capacità, anche giornalistica, di agire all’interno dell’audiovisivo con l’accuratezza di un reportage, un resoconto preciso della filiera produttiva e dei giganteschi danni causati dall’oppiaceo più controverso dell’emisfero occidentale. Ci si sposta presto, però, su una lunga confessione di Nan Goldin, accompagnata su schermo sia dalle sue foto, soprattutto quelle dello slide show The Ballad of Sexual Dependency del 1979/’85, che da filmati d’epoca che mostrano la selvaggia New York della seconda metà dei Settanta, il punk, la new wave, la Factory di Warhol, Tin Pan Alley, i locali omosessuali post moti di Stonewall e via dicendo… Una vera goduria per chi scrive, un blob divulgativo che unisce l’esperienza personale della Goldin alla temperie culturale di cui lei fu emanazione e promotrice al contempo, denso di materiale sufficiente di per se stesso per un intero documentario.

E invece si sovrappone un livello ulteriore, quello dell’adolescente Nancy Goldin prima dell’appellativo Nan, datole dal coinquilino e compagno David Armstrong, la formazione nella profonda provincia, tra Maryland e Massachussets, e il trauma del suicidio della sorella Barbara, incapace di trovare una via d’uscita dalla suburbia che rappresenta, e artisti come Lynch e Burton ne hanno fatto un tratto caratteristico della propria poetica d’autore, un cuore nero capace di divorare chi non si allinea o non sopisce i suoi istinti. Da allora, ed è qui il trait d’union, la promessa a se stessa di Nancy/Nan di rifuggire ogni etichetta e gabbia e provare a vivere davvero, senza sconti, con la curiosità e la temerarietà necessarie. Come si può facilmente immaginare, dunque, un materiale umano e artistico magmatico, presentato però nella forma cinematografica più “facile” possibile, per semplici giustapposizioni. I ritorni periodici al presente e alle cause intraprese contro i Sackler interrompono la sequela d’immagini fotografiche e il flusso di coscienza, quasi come se la regista autosabotasse il suo stesso tentativo di replicare la forma d’espressione preferita dalla Goldin per rimembrare il grigiore dell’oggi, e sottolineare allo stesso tempo il mutato ruolo dell’arte, sterile lavacro di coscienze lordate. Era proprio questo l’obiettivo/tentativo? Saremmo pronti a giurarlo, ma l’intento rimane prigioniero delle immagini, e un montaggio quasi mai brillante nell’alternanza dei diversi piani di certo non aiuta. Le stratificazioni della lavorazione rimangono tutte lì, in bell’evidenza: l’iniziale intento, nel 2019, di realizzare un lavoro su una semplice dicotomia Bene/Male, PAIN-Goldin/Sackler, e poi le lunghe conversazioni con l’artista, il suo esserne catturata, l’accorgersi che sulla storia iniziale iniziava a sovrapporsene un’altra, più intima, privata e collettiva insieme, su una sopravvissuta e una miriade di ragazzi e ragazze di genio, brillanti, scomparsi in una nuvola di eroina ed Aids. E ora, ancora una volta, la sopravvissuta non smette di combattere, sempre lì, valchiria che pare avere un’inscalfibile corazza, una personalità strabordante, una forza non comune. Dopo aver ritratto nella loro essenza, non nascondendo nulla, i suoi amici e conoscenti e i lividi sulla sua pelle, Nan vuole ora cercare di vincere e non più solo di sopravvivere, almeno per una volta.
Eppure è inevitabile che il giudizio su questo film sia inevitabilmente inficiato dalla massima onorificenza raccolta al Lido, che appare eccessiva anche in un’annata dal concorso principale non particolarmente brillante. Unico esempio di cinema del reale nella competizione, e soprattutto complice la sua forma piatta e televisiva, era uscito dal radar di tutti, addetti ai lavori e semplici spettatori, abbastanza presto, e la vittoria (ancora più paradossale nell’anno in cui Frederick Wiseman, documentarista fra i più grandi al mondo e quasi mai premiato in carriera, ha presentato un film di finzione largamente frainteso) si configura come una delle più sorprendenti nella lunga storia della Mostra. Probabilmente, come spesso accade, è stata la scelta di compromesso, un film impossibile da detestare (forse anche da amare, ma inutile ripetersi) per i sette giurati, due in meno rispetto al solito (ricordiamola, la composizione della Giuria: oltre alla presidente Moore, il regista napoletano Leonardo Di Costanzo, l’argentino Mariano Cohn, lo spagnolo Rodrigo Sorogoyen, la francese Audrey Diwan “campione uscente”, l’attrice iraniana Leila Hatami e lo scrittore anglo nipponico Kazuo Ishiguro). Complimenti ad Andrea Romeo e alla I Wonder Pictures per aver comprato in tempi non sospetti il film per la distribuzione italiana, dove uscirà come Tutta la bellezza e il dolore, e speriamo si riesca a imbastire una campagna marketing targettizzata, cosa tutt’altro che facile. Negli ultimi anni, dopo il Leone “autoriale” del 2016 a Lav Diaz, la gestione Barbera della Mostra si era caratterizzata per i Leoni ad una sequela di blockbuster e campioni d’incassi potenziali, citiamo per tutti La forma dell’acqua e Joker, che arrivassero a dare, soprattutto oltreoceano, cassa di risonanza. Quest’anno il premio va ancora agli Usa (e ancora a una cineasta, sottolineiamo il mero dato statistico, per la terza volta consecutiva dopo Chloe Zhao e la già citata Diwan) ma immaginiamo che la direzione non sia felice del premio allo stesso modo…

Donato D’Elia

“All the Beauty and the Bloodshed” (2022)
113 min | Documentary | United States
Regista Laura Poitras
Sceneggiatori N/A
Attori principali Nan Goldin
IMDb Rating N/A

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