«Everything is stolen»
Lars von Trier
Durante la 79esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema organizzata dalla Biennale di Venezia, si è tanto sentito parlare di “opere terminali”, film che hanno l’apparenza di essere l’ultimo sforzo di un’intera carriera, da parte di artisti che sembrano essere alla fine di un sentiero tracciato in decenni di cinema. S’è detto così per esempio de Gli ultimi giorni dell’umanità, o del postumo Call of God di Kim Ki-duk, o ancora del più recente film di Paul Schrader, Master Gardener, anche a causa di dichiarazioni del regista stesso, che si è riferito nelle interviste al suo ultimo lungometraggio, fuori concorso al Lido, come a un lavoro nato dalla necessità di ribadire qualcosa, nella possibilità che fosse il suo ultimo film, così concludendo una trilogia di film simili tra loro in tema e svolgimento. E si è sentito qualcosa di analogo anche su Lars von Trier, il rivoluzionario provocatore del cinema europeo che ha sconquassato gli schermi dagli anni ’90, data la recente notizia del suo stadio avanzato del morbo di Parkinson, e anche nel suo caso è per qualcosa che abbiamo visto fuori concorso, e sempre la conclusione di una trilogia: Riget: Exodus però è una serie TV, anche se in Italia arriverà al cinema, e corrisponde alla terza stagione della serie The Kingdom (Riget) che Trier scrisse e diresse negli anni ’90, in uno dei suoi lavori più apprezzati tout court anche da chi ha sempre detestato il regista danese. E nel suo caso, si parlava di opera terminale già da qualche anno, da prima che si sapesse della sua malattia, per l’aura di dannazione che circondava il suo più recente lungometraggio, The House that Jack built, vera e propria ‘katabasis’ di un serial killer vista dal suo medesimo punto di vista, in un’allegoria del male, dell’indifferenza e della decadenza del senso morale dell’uomo che sembrava un riassunto della sua intera filmografia dedicata a uomini che odiano e donne che subiscono, alla distanza tra le persone più che alla loro unione, tra interiorità tormentate e società opprimenti. The House that Jack built, come il precedente Nymphomaniac, è un film verboso, che tramite una dialettica forsennata tra il protagonista serial killer e il Virgilio di Bruno Ganz imbastisce un discorso sull’arte e sull’uomo che alterna irrazionalità (follia) a una parvenza di dichiarazione d’intenti e autogiustificazione dell’autore sui suoi metodi e sul perché alla base del suo metodo cinematografico provocatore, distruttivo e narcisista; Nymphomaniac e Jack del resto sono le prime due sceneggiature curate da Trier dopo la disintossicazione da alcol e droghe. A causa della loro devozione maniacale al potere della parola (e al potere che ha l’immagine nel poter seguire, rappresentare, rievocare la parola oltre la mera impressione) sono forse anche i lavori nella sua filmografia che più hanno la potenzialità di rappresentare, ricostruire, simboleggiare il pensiero dietro un intero percorso, con una prassi da seduta psicoterapeutica che però espone i grandi dubbi e problemi di un presente malato con poche sicurezze. E il percorso di Trier è colmo di tappe, dal cinema sperimentale alla TV (con le prime due stagioni di Riget) fino al Dogma 95 e poi al suo abbandono, e dunque da divertissement formali e di contenuto a un filosofeggiare ‘matto e disperatissimo’ che gioca con lo spettatore, provocandolo con sferzate di nichilismo con un senso dell’umorismo sadico e grottesco atto a irritare i benpensanti, facendo loro guardare il mondo con la coda dell’occhio. Riget: Exodus rientra nella stessa ottica di Jack, ma il regista qui fa un’inversione a U, non procede con la forma dei film precedenti bensì, 25 anni dopo l’inizio di The Kingdom, ritorna in quel mondo con gli stessi stilemi, gli stessi temi, ritorna sui suoi passi, operando ‘de facto’ in modo opposto a David Lynch nel Ritorno di Twin Peaks.
Se, difatti, Lynch e Mark Frost, nel delineare la terza stagione Showtime della “più importante serie TV della storia del cinema” (paradosso importante), hanno deciso di costruire un ‘Ritorno’ graduale e straniante, in cui i personaggi nuovi e vecchi si susseguono in un modo che disattende e prende in giro le aspettative dello spettatore, Trier decide di far capire subito al pubblico di Riget che nel Kingdom Hospital non è cambiato quasi niente. Anche in questo caso, come in quello di Twin Peaks, molti degli interpreti principali sono morti negli ultimi 25 anni, nello specifico i due protagonisti delle prime due stagioni, Ernst-Hugo Järegård, che interpretava il neurochirurgo Helmer, e Kirsten Rolffes, l’anziana medium Drusse; ma Trier li sostituisce con due personaggi nuovi che hanno la stessa, identica funzione nella narrazione, con il figlio di Helmer, Helmer Jr (interpretato da Mikael Persbrandt, celebre internazionalmente per le sue collaborazioni con Susanne Bier e per il ruolo nella serie Netflix Sex Education), e la spiritica Karen, che altri non è che Bodil Jørgensen, la protagonista di Idioti, il secondo film Dogma (anche il nome di Karen è ripreso da Idioti, come se fosse lo stesso personaggio, che ‘entra’ in Riget). Exodus si apre proprio con lei, nella comodità di casa propria, che finisce di guardare l’ultima puntata della seconda stagione di Riget in TV sul suo cofanetto DVD, e parla tra sé e sé insultando Trier per la conclusione poco soddisfacente della trama: «ma questo sarà un finale!?», dice. Le stagioni precedenti di Riget difatti si chiudevano con un cliffhanger che lasciava tutto irrisolto: Lillebror (Fratellino), l’entità misteriosa e orripilante interpretata da Udo Kier, ucciso da sua madre, una trasfusione interrotta, un incidente d’auto con ambulanza, e la signora Drusse piombata negli inferi con un ascensore posseduto dai demoni. Karen, presa dall’insoddisfazione, incanala la sua “signore Drusse” interiore, e si lega al letto in un’auto-ipnosi, per poter cambiare il corso delle cose comunicando con gli spiriti. Presto, una limousine la viene a prendere e la porta al Kingdom Hospital, dove, appena lei entra, il formato e il colore dell’immagine cambiano, per ritornare al 4:3 virato in seppia emblematico delle prime due stagioni. Trier ci dice subito dunque che il punto di vista di Exodus è distaccato, perché Riget è ormai un’opera talmente distante nel tempo da essere rivisitabile solo coi mezzi della meta-narrazione, ma anche volontariamente datato, un tuffo nel passato per re-immaginare un finale da dare a una storia incompiuta. Mischiando così reale e non-reale, sembra chiaro che Riget, nell’universo dei film di Trier, è una dimensione a parte, un sogno, forse un incubo.
Visto che molti probabilmente vedranno Exodus senza aver visto le prime due stagioni, quasi irreperibili nel nostro paese, ci sembra giusto ricordare in parte che costituiscono un ‘unicum’ nella carriera di Trier: il Kingdom Hospital (il Rigshospitalet di Copenhagen, che esiste davvero) è la culla per infestazioni di demoni, figli di violenze di secoli prima, medici corrotti e/o idioti e sette massoniche, chirurghi che vogliono morire auto-trapiantandosi metastasi di dimensioni record, magie vudù e ambulanze fantasma. Prima della sigla, in ogni puntata, una voce recita:
«Il suolo sotto l’ospedale del Regno anticamente era una palude dove i tintori venivano a inumidire i grandi teli che poi stendevano per la sbiancatura. In seguito qui fu costruito il grande ospedale e gli sbiancatori furono sostituiti da medici e ricercatori. Geni della scienza e della tecnologia che per coronare il loro lavoro chiamarono questo luogo Il Regno. Essi erano i padroni della vita. Ignoranza e superstizione non avrebbero più potuto scuotere i bastioni della scienza. Forse fu la loro spiccata arroganza che li portò a negare la spiritualità. E adesso è come se il freddo e l’umidità fossero tornati. Si incominciano a vedere piccole tracce di stanchezza negli edifici non più così solidi e moderni. Nessun essere vivente ancora lo sa, ma la porta del Regno sta per aprirsi.»
Il mondo ‘dei tintori’, la palude sotterranea del Regno i cui demoni satanici sono carburante per le disgrazie di pazienti e dottori, si vede solo nel prologo di ogni puntata e appare come incubo febbrile a far da portale tra il nostro mondo e il loro. Gli orrori del Regno sono manifestazioni della memoria, di un passato occulto e brutale che viene dimenticato e nascosto, come gli stupri, gli incesti e gli omicidi adoperati da Åge Krüger (Udo Kier), un uomo di un secolo prima (il “BOB” twinpeaksiano di Lars, manifestazione/prosopopea del male) che ancora violenta e ingravida donne, pur divenuto fantasma, per mandare avanti la sua genealogia demoniaca. Ma a vigere nel Regno non è solo l’horror, ma anche un certo umorismo a grana grossa che di rado troviamo nel resto dell’opera di Trier: tra gag a doppio senso come nelle screwball comedy e un insistente, costante gioco satirico sugli stereotipi Danimarca/Svezia, il regista, che si presenta come ingranaggio perverso di idee narrative stile Rod Serling in Ai confini della realtà o Hitchcock in Alfred Hitchcock presenta, conferisce alla serie ospedaliera, che era particolarmente di moda negli anni ’90, un’aura maledetta e sarcastica, in cui tutto ciò che è reiterato lo è per scopi comici, e tutto ciò che è nuovo è fonte di paura e timore. Le prime due stagioni di Riget sono dunque un affresco di un reale parallelo, esplicita parodia di Twin Peaks e di Belphagor, in cui distruggere le certezze del raziocinio e della scienza a suon di sferzate al buon senso. Il mondo logico degli uomini è visto con diffidenza e affidato a una serie di antieroi imbecilli come i protagonisti dei Coen e non professionali come quelli delle sit-com (col senno di poi, non possono che venire in mente serie americane anni 2000 come The Office o Scrubs), che tuttavia si aggirano non in un “regno” salubre per la commedia, bensì in uno spaventoso, incomprensibile. Il neurochirurgo svedese Stig Helmer era il protagonista della parte umoristica, un “diavolo a quattro” insopportabile e respingente, che nei suoi tentativi disperati di insabbiare le prove di un suo errore in sala operatoria diventava simbolo dell’odio della Svezia verso la Danimarca («danesi canaglie!», esclama in ogni puntata; in Exodus questo motto viene rimesso in scena con la stessa puntualità dal figlio), rimanendo sempre o quasi ignaro degli avvenimenti paranormali dell’ospedale – dei quali invece era protagonista la signora Drusse, sempre tuttavia incapace a capire davvero l’entità dei demoni, cosa che la porta anche a peggiorare la situazione che lei invece vuole risolvere.
Ricordiamo inoltre che Riget è probabilmente, insieme a Le onde del destino, il progetto in cui più in assoluto LVT ha raffinato la propria tecnica registica, tra gli esordi ancora acerbi ma colmi di idee e la fase Dogma (e dintorni), da Idioti fino all’astrazione di Dancer in the Dark, Dogville per arrivare alla tetralogia della depressione in digitale, che va da Antichrist a Jack passando per Melancholia e Nymphomaniac. Tornando in Exodus alle logiche fuori tempo massimo di Riget, Trier dimentica quasi totalmente il Dogma, i ralenti, i tableaux vivants, i super-montaggi found footage delle ultime opere, e torna a lavorare in modo radicale sulle potenzialità di regia e montaggio con la macchina a mano, così riappropriandosi di uno stile di regia che è stato spesso criticato negativamente, come insensato e confusionario, per poter motivare ogni scelta in una logica di intrattenimento, mai aderendo così tanto alla struttura della satira. Persino una panoramica traballante che mostra una soggettiva di un uomo che si risveglia finisce per essere un depistaggio dalla narrazione a effetto comico. Ma il lavoro sui personaggi in Exodus è forse quello che più dimostra profondità: Drusse diventa Karen e Helmer diventa Helmer Jr, sì, ma anche Lillebror diventa Sorebror (Fratellino -> Fratellone), il figlio di Drusse di nome Bulder viene sostituito da un suo quasi sosia chiamato Bolder, il direttore sfigato del reparto chirurgia Einar Moesgaard viene sostituito da un ancora più ridicolo dr. Pontopidan (interpretato da Lars Mikkelsen, fratello di Mads), l’avvocato svedese di Stellan Skarsgard viene sostituito da un altro avvocato svedese interpretato da suo figlio Alexander, e soprattutto il coro greco di commentatori onniscienti passa dai lavapiatti con la sindrome di Down a un malato di progeria accompagnato da un braccio meccanico parlante. Le logiche di Riget si fanno cicliche, e nella ciclicità traspare un certo senso di distruzione e autodistruzione del mondo del Rigshospitalet di per sé: anche solo il fatto che il braccio meccanico parlante non riesca a lavare i piatti e finisca per spaccarne uno dopo l’altro sembra dare l’idea di un senso di apocalisse incombente, e soprattutto incosciente. Ma in fondo questa fine del mondo è evocata con goliardia. LVT, col suo Ritorno, vuole mettere un punto alla fine del mondo di Riget (anche in questo senso andando al contrario rispetto alla terza stagione di Twin Peaks, che Trier dice di non aver visto), vuole decisamente farsi beffe del pubblico e del panorama televisivo mondiale, non andando in direzione di una tesi come molti suoi film precedenti (Dogville su tutti) quanto di una sintesi, di un’esplosione di senso che va da tutte le parti, all’insegna di un racconto del Caos – «tutto è rubato», del resto. L’insistenza a prendere per i fondelli gli stereotipati conflitti tra danesi e svedesi, oltre a tornare a ripercorrere una rivalità millenaria, sembra anche una presa in giro dell’onnipresenza di questo tema tutt’oggi nelle serie ‘crime’ scandinave odierne di Netflix e dintorni che intrattengono i nostri genitori, così come l’inserimento di una sottotrama che sembra sfottere il politically correct («la ‘loificazione’ [sic] della sanità danese», ovvero l’introduzione di una nuova forma universale del pronome singolare – ‘loi’ – a unire ‘lui’ e ‘lei’ in una sola definizione) sembra messa lì ad aggiungere un sapore contemporaneo a un mondo rimasto negli anni ’90 più che un’effettiva critica al liberalismo inclusivo. Il mondo di Riget è statuario, catatonico, indisposto a cambiamenti o rivoluzioni.
Con questo ‘esodo’, LVT racconta la trasmigrazione delle anime dall’ospedale, dispiegando una natura ciclica della Storia e della morte, che esorcizza in un divertissement citazionista che mette in un frullatore Dreyer, Tarkovskij, di cui è citato Solaris, e Bergman (che appare in ‘deepfake’ sotto il cappuccio di una Morte personificata à la Settimo Sigillo). Le battute e le gag visive si ripetono tutte sempre eguali a esse stesse, anche se sembra aprirsi e dipanarsi un mistero, un puzzle da completare – e il puzzle è strano e fumoso, ma l’ultima presa in giro, la ‘punch line’, è proprio nell’immagine finale che viene a comporsi, che altro non è che lo stesso Lars von Trier. Se la sua decisione di porre una fine a questa trilogia è stata per darne un significato, tale significato è chiaro: il mondo è pura distruzione, nei film di Trier, ma è perché sono film di Trier, e lui è il Male. Dai vari membri dello staff dell’ospedale che lo insultano («Quello stronzo di Trier ha rovinato la reputazione dell’ospedale», dice un addetto ai lavori del Rigshospitalet riferendosi alle prime due stagioni, quasi come se fossero un reality show) al finale disfattista ed esilarante, l’egomania del regista danese ha raggiunto senza dubbio dei livelli di strafottenza encomiabili. Con una libertà del mezzo cinema che ha del miracoloso nel mischiare terrore e umorismo grottesco per 5 ore senza annoiare un secondo, proponendo idee di messinscena folli e sempre diverse ogni 5 minuti pur ricalcando gli stessi volti e gli stessi corridoi, Exodus è una delle opere più importanti di una filmografia sterminata e controversa, l’approdo del regista danese nel mondo di fantasmi mitico che nelle stagioni precedenti era solo nella sigla, un tentativo di ricerca di trascendenza in una storia terrena e pessimista. Questa terza stagione ha di tutto, tra infermiere sataniche, minacciosi spettri di statue di Ogier il Danese, cuori grandi come una stanza, ceneri conservate in cartoncini del latte, massoni che muoiono per la noia, una setta di svedesi, un’anziana in sedia a rotelle che si arrampica su una corda e persino un cameo di Willem Dafoe – e la potenza e il ritmo di Exodus sono davvero elettrizzanti. Ma è giusto avvertire…
…«se vorrete trascorrere ancora del tempo con noi qui al Regno, preparatevi ad accogliere il Bene e il Male».
Nicola Settis