4 Settembre 2022 -

THE WHALE (2022)
di Darren Aronofsky

«L’obeso ha un aspetto imperturbabile e imponente
è un grosso uomo che si muove lentamente
Mangia sempre dalla sera alla mattina
con l’isterica passione per qualsiasi proteina
L’obeso è imprigionato nel suo corpo assai opulento.
Sembra un uomo generato da un enorme allevamento.
L’obeso aumenta di peso.
L’obeso aumenta di peso»
Giorgio Gaber, L’obeso

Basterebbe forse l’intensità della sequenza in cui l’obeso grave Charlie, incarnato da un magistrale Brendan Fraser prima ingrassato e poi letteralmente circondato da dispositivi prostetici per immergerlo nella fatica di un corpo da 270 chili, si ritrova ancora una volta da solo a fagocitare compulsivo e disperato, aggiungendo avidamente alle fette di pizza tutto ciò che trova nel frigo. Una vera e propria bulimia per dolore, emotivamente annientato negli affetti e nell’attesa di una morte ormai imminente, per un uomo che sconfitto dal lutto e dai sensi di colpa si è lasciato andare fino a devastare il proprio corpo, fino a non uscire di casa da chissà quanti anni, fino all’invalidità di chi ha bisogno di assistenza quotidiana e del girello per alzarsi e dolorosamente deambulare per casa, e poi non potrà che accettare di convertirsi a un’apposita sedia a rotelle XXXL. Un uomo per cui perfino muovere il collo è oramai sofferenza e immane fatica, che si vergogna del suo aspetto al punto di millantare una webcam rotta per non mostrarsi nemmeno ai suoi studenti online, al punto di farsi lasciare ogni giorno le pizze fuori parlando con il fattorino solo attraverso la porta, al punto di accettare di buon grado la condanna a morte delle insufficienze cardiache e delle ipertensioni, e che nei suoi consapevoli ultimi giorni cerca disperatamente di riscattare un’intera esistenza aggrappandosi con tutte le forze agli ultimi (im)possibili vagiti dell’amore. Quello nei confronti di Ellie, una figlia abbandonata da Charlie a otto anni per coronare il suo sogno d’amore omosessuale con Alan e che da quel momento gli è sempre stata tenuta lontana, ma mai dimenticata nel mettere da parte per lei e per il suo futuro ogni risparmio, ogni guadagno, ogni pensiero. Anche e soprattutto dopo il tragico suicidio del compagno, dopo il quale il corpo di Charlie ha cominciato a lievitare fino alla deformità e il morale non si è mai più ripreso.
«Mi trovi disgustoso?», chiederà a più riprese alle pochissime persone da cui si lascia avvicinare e guardare, quasi sperando in una risposta affermativa, e quindi sincera, senza ipocrisie, senza gli sforzi del mormone Thomas giunto per caso nell’appartamento o dell’amica infermiera Liz sorella di Alan, che lo assiste con affetto credendolo nullatenente e che invece gli rinfaccerà l’avarizia una volta scoperto che tutto veniva messo via per la figlia, per mostrarsi migliori di ciò che realmente sono. È per questo che Charlie, “balena” umana del The Whale con cui Darren Aronofsky, cinque anni dopo il passo falso di madre!, torna finalmente a commuovere e a volare altissimo, è così ossessionato da quell’infantile stroncatura di Moby Dick che si affretta a farsi rileggere ogni volta che ha paura di morire. Il «miglior tema mai scritto» perché sincero e spietato nell’attaccare un mostro sacro non piaciuto – «L’autore parlava di balene per risparmiarci la sua triste storia» – senza fare in alcun modo finta di averlo apprezzato solo perché capolavoro conclamato. È solo nella verità senza filtri e dissimulazioni che sta il candore, l’intimità senza più maschere delle persone che Charlie cerca disperatamente nei suoi studenti così come oltre la cortina di cinismo di Ellie. Anche se la verità può fare male, può essere insensibile, dolorosa, derisoria, crudele. Rimane anzi, nella sua schietta franchezza, l’ultima residua forma di bontà, molto più di una gentilezza forzata e insincera, di facciata o di interesse, per se stessi e non per gli altri. Perché «nessuno è in grado di non amare», nemmeno quando prova con tutte le sue forze a dimostrarsi «cattivo». Basta avere la pazienza di scavare per trovare il cuore. Ed è così che un’inaspettata scintilla d’amore che passerà da un padre a una figlia, dando finalmente un senso (ultimo? primo?) a tutte e due le loro vite.

Tratto dall’omonima piéce teatrale di Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura di questo adattamento cinematografico, The Whale segna con il suo inedito rigore l’ennesimo cambio di rotta stilistico di Darren Aronofsky. Forse l’autore che più di tutti riesce di volta in volta ad adattare il linguaggio, le tecniche di ripresa e il montaggio alla storia e ai personaggi che vuole raccontare, dal bianco e nero nervoso di π ai pedinamenti in macchina a mano di The Wrestler e Black Swan, dalla mdp ipercinetica di Requiem for a dream a queste inquadrature fisse interrotte al massimo da qualche panoramica per la stanza, in cui il corpo che intrappola Charlie nella casa viene a sua volta intrappolato negli orizzonti negati di un 4/3 totalmente privo di vie di fuga. Ma non è la claustrofobia l’obiettivo di The Whale, girato in piene restrizioni Covid e presentato in concorso alla 79ma edizione di quella Venezia che Aronofsky ha già vinto al tempo con The Wrestler. Fra le citazioni di Moby Dick, i corsi online, le tesine da (ri)scrivere (o forse no), i tuffi nel passato (del/col) mormone e l’abbraccio di perdono di un’ex moglie lasciata al tempo per un uomo che non c’è più, The Whale è un film che mette in aperta dialettica la crudeltà umana con la sincerità dei sentimenti, il dolore fisico con l’affetto, la fatica con la redenzione, il visibile con l’invisibile, l’esteriore con l’interiore, la corporalità con la Fede. E non certo in ultimo la casa con la famiglia, in una singola location e in una struttura modulare che partono dal teatro per guardare verso una sorta di drammatizzazione melò della sit-com, scandita dall’entrata e dall’uscita dei personaggi e volutamente episodica nel passare dei giorni, con quella finestra come spazio scenico di fatica che preannuncia ogni arrivo e che saluta ogni partenza.
Una nuova e diversissima declinazione di un cinema fatto di lavori così difformi fra loro che, a un occhio distratto, potrebbero apparire quasi di registi differenti, e che invece rivelano un’autorialità magari dalle riuscite un po’ altalenanti eppure ben precisa e coerentissima, in cui i diversi stili di messinscena non sono altro che differenti possibili declinazioni delle stesse ossessioni di sempre, dalla dipendenza (dalle droghe, dal successo, e ora dal cibo) alla devastazione del corpo (di un wrestler in parabola discendente, di una ballerina annichilita da tensione e allenamenti, di Noé chiamato sotto il diluvio alla missione divina, e ora di un obeso ormai invalido che cerca nel cibo una soluzione al suo dolore e troverà nel superamento del suo corpo la salvezza della sua anima), dal rapporto padre-figlia da recuperare (ancora di The Wrestler) alle (bibliche) ossessioni che diventano bisogno (di un matematico, dei performer, di chi vuole a tutti i costi fare incontrare a chi ha di fronte Dio). Perfino la casa-prigione orrorifica di madre! diventa qui una casa-prigione sì di tormento e mancanza, ma anche e soprattutto d’amore, quello mai dimenticato per Alan, per cui ancora chiudersi a piangere nel bagno senza essere mai riuscito a spostare una virgola di quella che era la camera da letto insieme, e quello mai sopito verso Ellie, tanto perfida e apparentemente anaffettiva quanto pronta, pur senza saperlo, a riscoprire quell’umanità che mai aveva smesso di pulsarle sotto la pelle, il suo essere «una persona magnifica» che, anche quando intenzionalmente maligna, finisce sempre e inevitabilmente (si veda l’effetto della confessione del predicatore mormone inviata ai suoi genitori) per agire per il bene.
Del resto, tutto e tutti sono ambigui in The Whale, e spesso e volentieri lungo i cinque giorni dell’arco narrativo finiranno per disvelarsi l’opposto di quello che si sforzano di apparire. A partire dallo stesso Charlie, sì vittima del fato e di un mondo che lo ha abbandonato e che lo guarda disgustato, sì totalmente votato alla redenzione attraverso la tardiva salvezza della figlia diciassettenne, ma anche profondamente egoista nelle sue scelte di vita passate e nell’autocommiserazione del presente, nella sua autoemarginazione per non rischiare di essere emarginato dagli altri, nel suo rifiuto di pagare un’assicurazione sanitaria o le spese di un ricovero in ospedale, scegliendo consapevolmente il proprio destino. Nel suo agire per se stesso anche mentre pensa agli altri. È da questa nuova consapevolezza che deve necessariamente passare la salvezza. Dalla webcam riattaccata al computer mostrandosi alla classe di studenti come premio per essere stati finalmente in grado di donargli quell’intima sincerità che aveva sempre richiesto, dal sole che fa nuovamente capolino fra le nuvole dopo giorni e giorni di pioggia incessante, dagli occhi lucidi degli ultimi saluti, dalla rilettura per un’ultima volta di quel vecchio tema su Moby Dick in cui ritrovare «la vera Ellie». Da quel corpo che riesce miracolosamente a liberarsi del peso e a rialzarsi da solo, a camminare senza più aiuti verso di lei che piange, e poi a librarsi in volo, ormai leggero come una piuma.

Marco Romagna

“The Whale” (2022)
117 min | Drama | United States
Regista Darren Aronofsky
Sceneggiatori Samuel D. Hunter
Attori principali Brendan Fraser, Sadie Sink, Hong Chau
IMDb Rating N/A

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