La morte, il lutto, la mancanza, il senso di colpa, il tradimento, la scrittura, il lavoro quotidiano. E poi il sospetto, la (s)fiducia, la strada da lasciar scorrere sotto gli pneumatici, l’integrità morale, la purezza d’animo, l’emancipazione femminile, l’omicidio, la caccia con l’arco come simbiosi con la Natura mimetizzandosi e (ri)diventando animali in attesa della preda. Ma soprattutto il cinema, le sue forme, il thriller, il melodramma, la tensione, il sogno, l’incubo, il road movie, la citazione appassionata, l’utilizzo subliminale delle musiche, la struttura tragica (sempre) shakespeariana. La vendetta, e poi ancora l’amore. Giunto al decimo lungometraggio a quattro anni di distanza dal magnifico Mes Provinciales, Jean Paul Civeyrac non ha più bisogno di film da girare all’interno del film né di tornare a quell’abbacinante bianco e nero da qualche parte fra Rohmer e Philippe Garrel perché il suo nuovo Une femme de notre temps, presentato in prima mondiale al 75mo Festival di Locarno nella sempre spettacolare cornice di Piazza Grande, ragioni ancora una volta sulla settima arte, sulle sue potenzialità espressive, sui possibili scarti linguistici all’interno della narrazione. Un film che naviga nei generi attraverso spiazzanti e repentini cambi di direzione, guardando tanto alla Nouvelle Vague hitchcockiana di Chabrol quanto allo Zemeckis de Le verità nascoste, tanto al Paul Verhoeven dei polizieschi a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta quanto alle vertigini oniriche lynchane di Strade perdute, tanto alle panoramiche a schiaffo della migliore tradizione orrorifica quanto all’emotività straziata Come le foglie al vento di Douglas Sirk, con il cui arrivo fra le grate di un cancello immaginare per la prima volta la verità più atroce, o forse con cui ritrovarsi ancora una volta teneramente abbracciata a Hugo, quel marito fedifrago e ormai ferito da consolare dopo la rivincita. Si apre sul poligono di tiro, Un femme de notre temps. Si apre sulla Juliane di Sophie Marceau divisa fra il lavoro quotidiano come poliziotta e la passione per la scrittura, proprio come è divisa fra i suoi due cognomi, il suo e quello del marito, con cui firma rispettivamente le indagini e i romanzi. Ma soprattutto si apre sul suo trauma per una sorella morta suicida cinque anni prima, sui suoi sensi di colpa per non averle saputo essere abbastanza vicina, sui suoi rimorsi irrisolti per essere stata incapace di capirla e di proteggerla. È sulla sua storia che vuole scrivere il prossimo libro, come sempre preciso e incapace di mentire, come sempre fatto di lunghe ricerche e di un personalissimo trasporto. Lo stesso dei suoi incubi notturni, delle visioni ossessive dei vecchi video in cui Lydia era ancora viva e sorrideva, delle fotografie che la ricordano ovunque in giro per la casa. Di quel giardino che amava così tanto curare e in cui ora passeggia Hugo: il MacGuffin di un attrezzo da riporre proprio in quel capanno che nasconde l’inconfessabile, la vertigine acuta e perturbante dei tappeti musicali a suggerire come quell’uomo apparentemente mite e innamoratissimo, premuroso sposo e tenero padre di famiglia, possa nascondere più d’un segreto.
Segue le traiettorie di una parabola di turbamento, Une femme de notre temps. O forse di una spirale, di un nodo sempre più stretto intorno alla gola della protagonista, in una serie di shock sempre più profondi che la porteranno a ridiscutere ogni certezza sui fatti, su se stessa, sui propri affetti, sulla propria integrità morale. Ripetutamente tradita, su ogni livello, e ora bestia ferita che si ribella e fieramente combatte, costi quel che costi. Dalla nostalgia per il lutto mai elaborato a quelle lacrime silenziose e strozzate quando Hugo porta in casa un’amante e ci fa sesso sul letto nuziale senza rendersi conto di Juliane nascosta nel bagno, fino a quelle lettere ritrovate nel capanno dalle quali la protagonista capirà come l’intreccio familiare fosse in realtà molto più complesso, e non certo sua la colpa della morte di una sorella che a questo punto non può non vendicare, insieme a se stessa. A costo di rinunciare a quella purezza ed etica inattaccabile di cui ancora il marito si dichiara nonostante tutto «profondamente innamorato», a costo di tirare grilletti e di scoccare frecce, a costo di perdersi e poi di ritrovarsi. A costo di (dover) scartare dal percorso per aiutare chi ne ha bisogno lungo la strada, di ritrovarsi sotto pressione e commettere (con una svolta narrativa sicuramente funzionale al senso del film ma, va detto, forse un po’ forzata) il più tragico degli errori, e poi di essere costretta a dissimularlo fino al crimine pur di andare avanti. Una vera e propria missione che le fa dimenticare tutto il resto, il morto ammazzato su cui indagare, i messaggi dei colleghi poliziotti che le comunicano la piena confessione del sospettato, forse persino il libro da scrivere, in nome di una giustizia più alta, più estrema, per la quale per la prima volta in vita propria mentire agli affari interni, costruire prove per autoscagionarsi e poter proseguire nel viaggio, braccare e tenersi pronta se necessario pure a uccidere, o per lo meno a colpire e a ferire. Per poi, ma solo dopo, una volta fatto quanto necessario, definitivamente rinsavire dal suo stato di trance per tornare alla sua fragile tenerezza e alla sua piena rettitudine: a ogni delitto deve necessariamente corrispondere un castigo. Ma non è certo la trama, pure perfettamente coerente e al contempo più e più volte sorprendente nelle sue improvvise deviazioni dalle aspettative, il vero punto di Civeyrac. Così come non lo sono le altrettanto evidenti istanze femministe, e forse nemmeno come un tradimento troppo grande e reiterato possa portare a commettere atti di cui mai e poi mai si penserebbe di essere capaci, o più in generale come giungere a un punto particolarmente critico possa improvvisamente portare a una conoscenza dei propri lati nascosti, e quindi di se stessi, della propria intimità, della propria natura primordiale. O meglio, c’è tutto questo, ma la principale forza di Une femme de notre temps è semmai la sua capacità teorica e linguistica di disorientare più e più volte nei suoi insistiti cambi di atmosfera, fra la suspense, la poetica, la violenza, i sentimenti. Con quel turgido melodramma d’altri tempi che nell’abbraccio di avvolgenti carrellate diventa progressivamente oppressivo thriller psicologico, poi viaggio non solo onirico nel tradimento, nel trauma e nell’ossessione, e poi ancora revenge movie al femminile di faretre medievali e di archi tesi, passando per la luce e per il buio, per la sensazione di impazzire fra i gemiti dell’amante nella stanza accanto, per un padre che suona a quattro mani il pianoforte con la figlia di fronte agli occhi gonfi di una madre che ha appena scoperto (parte de)i tradimenti del marito ma tenta ancora di fare finta di nulla. Per intere nottate passate prima al computer e poi al volante, e per chissà quante chiamate rifiutate o messaggi senza risposta. Per la colpa, e soprattutto per la morte, da sempre ossessione cardine del cinema dell’autore francese. Quella per suicidio, quella per omicidio, quella interiore di chi perde la testa, quella evitata all’ultima freccia. Quella che, nelle mani di Jean Paul Civeyrac, sembra rendere invece il cinema più vivo e pulsante che mai.
Marco Romagna