«Che vi siete persi», reciterà di lì a un paio di settimane la leggendaria scritta sul muro di fronte al cimitero di Poggioreale dopo che, alle 17:47 del 10 maggio 1987, con una giornata d’anticipo, il Napoli di Diego Armando Maradona segnerà simbolicamente il riscatto sociale di una città laureandosi per la prima volta Campione d’Italia. Eppure, anche se per l’aritmetica serviranno ancora i due successivi pareggi con Como e Fiorentina, buona parte di quello scudetto che era in realtà molto più che semplice calcio il Napoli se lo era già cucito sulle maglie il precedente 26 aprile, battendo 2-1 il Milan alla quartultima giornata. Forse è per questo che Piano piano inizia più o meno in contemporanea allo stacco di testa di Andrea Carnevale per il vantaggio contro i rossoneri. Uno dei principali istanti di fibrillazione, quel momento in cui è stato chiaro a tutti di potercela fare per davvero, di essere realmente a pochi passi da un traguardo che tutti sognavano ma che nessuno osava aspettarsi. Anche a chi, come la giovane protagonista Anna, non ama e non segue il calcio, in quella piccola masseria di Capodichino destinata allo sgombero per fare spazio alla sopraelevata dell’Asse Mediale dove sono ancora le onde medie della radio, in attesa di Novantesimo Minuto, a stuzzicare la fantasia di chi non può permettersi lo stadio. Pochi minuti dopo sarebbe toccato proprio al simbolo della rinascita Maradona, saltando il portiere e depositando con tre tocchi magici in fondo alla rete, fare esplodere ancora una volta il San Paolo e tutta la città, ma Nicola Prosatore, giunto all’esordio cinematografico di finzione e agli oltre 350 metri quadri di schermo della Piazza Grande di Locarno75 dopo una non trascurabile gavetta televisiva, lascia entrambe le marcature – così come tutto il calcio giocato – totalmente fuori dal campo, solo sui tabellini e nella memoria degli spettatori più calciofili, facendogli fare capolino solo come passione condivisa, come sogno di un intero popolo alla riscossa dopo anni di umiliazioni e soprusi, come l’emblema di un’impresa lungamente meritata tappa dopo tappa dalla quale ricominciare sotto una nuova luce. Nel suo film, quello che realmente conta di quei dieci minuti fra il 33mo e il 43mo di Napoli-Milan, mentre il giro campi di Tutto il calcio minuto per minuto ricorda il parziale di 1-0, è l’incontro fra gli sguardi di Anna e di Peppino. Non certo la prima volta in cui si vedono, da sempre vicini in quel piccolo agglomerato di case popolari che sta vivendo le sue ultime settimane prima della demolizione, ma la prima in cui gli ormoni dei quattordici anni sembrano far sentire loro qualcosa di diverso e forse già adulto, una curiosità, un desiderio, una spinta mai provata fino a quel momento. La voglia, o meglio il bisogno, di crescere, di comprendere, di vivere.
Del resto entrambi muoiono dalla voglia di sentirsi grandi. Anna che si trucca di nascosto e che ruba qualche sigaretta a una madre iperprotettiva e conflittuale che non riesce a non detestare, e Peppino ingenuo e impacciato ma ben felice di guadagnare qualcosa con un «lavoretto» che non capisce e di cui non sa nulla. Lei che sogna il rock anche mentre si allena suonando avidamente musica classica alla tastiera, e lui che in realtà preferirebbe sentire ‘O surdato ‘nnammurato ma si ferma lo stesso ogni giorno sotto la finestra di quella “principessa” a cui non riesce a dichiararsi. Lei che si sfiora sotto le lenzuola proiettandosi in un futuro impossibile con uomini ben più grandi, e lui che già si strugge d’amore senza nemmeno sapere che cosa sia. Il loro è un romanzo di formazione che si innesta in una parabola di sospensione, come quella di un’adolescenza che traghetta i residui d’incanto dell’infanzia verso la consapevolezza della dura realtà, come quelle case ormai provvisorie da tenersi pronti ad abbandonare per entrare prima possibile in quelle di nuova assegnazione, o come quel ponte della sopraelevata al tempo ancora incompiuta che incombe curvo e arcigno puntando dritto verso le abitazioni da abbattere. O ancora come quel buco nel muro, nascosto dalle rotondità di un servizio osé di Samantha Fox, attraverso cui prima guardare e poi passare per scoprire realmente la vita dopo l’infanzia, gli influssi della camorra sulla vita quotidiana del popolo, il pericolo e la salvezza, i rapporti da ridiscutere con l’altro sesso e con tutte le possibili declinazioni del concetto di genitori – quelli biologici, quelli mai conosciuti, quelli putativi, quelli inaspettatamente trovati lungo la via. Un buco che porta in un non-luogo, in una nuova sospensione, in una baracca in cui eseguire l’ordine di nascondere e nutrire un latitante senza nemmeno avere reale idea di chi o che cosa possa essere. Ma non vuole essere nemmeno un film sulla criminalità organizzata, Piano piano. Certo, c’è il boss Gennaro interpretato da Lello Arena che cura gli affari e tiene in scacco l’intero quartiere, c’è il delinquentello locale Ciruzzo che fa il lavoro di strada fra spaccio e racket, ma come il calcio è un simbolo di rinascita che non serve mai mostrare, la camorra è solo un elemento, la parte più infida e ristagnante di quel cortile in cui vivere l’adolescenza, un qualcosa di radicato e ineluttabile che periodicamente riemerge dallo sfondo e con cui è impossibile non fare i conti. Il reale motivo per cui è importante andare via da quelle case, verso un nuovo inizio, alla ricerca di una nuova vita. A innervare Piano piano è semmai il percorso di crescita umano e sentimentale dei protagonisti (in testa Anna, ma a ben vedere anche tutti gli altri compresi quelli già cresciuti), immersi in una realtà sociale della quale potranno comprendere appieno le complessità e i reali pericoli solo entrando come se fosse un gioco nell’età adulta. Quella in cui finalmente risolvere i contrasti e ritrovare il rapporto con una madre, magari. Quella in cui farsi ancora una volta salvare la vita da un padre magari duro, ma che non manca mai quando serve. Quella in cui capire che per crescere non serve troppa fretta, ma solo vivere le esperienze, provare desiderio e paura, formarsi nel senso di giustizia e nel discernimento. O ancora quella in cui poter finalmente scendere in strada sventolando le bandiere azzurre, campioni contro tutto e contro tutti, e forse anche per questo definitivamente maturi, davvero “grandi” e pronti, come tutta una città, per spiccare il volo. A volte possono essere sufficienti un paio di settimane per fare il passo definitivo, giusto lo spazio di tre partite alla radio. E pazienza se nel singolo match «il Napoli non può vincere sempre». Quello che conta per fare la Storia è aggiudicarsi il tricolore.
Parte dai ricordi di Antonia Truppo, Piano piano. Parte dalla reale adolescenza dell’attrice, compagna nella vita di Prosatore e co-sceneggiatrice del film lungo sette anni di rielaborazioni e di riscritture, e la reimmagina fra gli ordini di sfratto, il primo rossetto, le edicole votive, i bicchieri sul pavimento con cui origliare i vicini, le scommesse sportive, i bucchinèmammt per ridere insieme con la radio CB e i quiz di Cioè, ricostruendo in una sola location nella vicina Chiaiano quella Capodichino troppo immutabile nei suoi irrisolvibili risvolti per non fare tabula rasa e ricominciare, una Capodichino da distruggere e ricreare da zero come unico modo per poterla finalmente cambiare. Uno fra i tanti volti della Napoli dell’87, esattamente contemporanea eppure profondamente diversa da quella rimessa in scena da Paolo Sorrentino nel recente È stata la mano di Dio, forte dello stesso momento magico eppure lontana dagli ariosi campi lunghi da cartolina in giro per la città, ma al contrario chiusa in un singolo cortile e nel prato immediatamente adiacente, nello sguardo e nel dialetto stretto di una ragazza che sta crescendo, nel suo piccolo mondo che ancora non capisce perché sia così necessario abbandonare. Nella sua sostanziale famiglia allargata fra la madre, gli amici di sempre, le sgradite avance del delinquentello Ciruzzo, la gelosia della di lui fidanzata e le ingerenze del boss locale un po’ padre-padrone di tutti gli altri, e poi Peppino con la sua famiglia, fino al mariuolo latitante che, a costo di terapie d’urto, si rivelerà mentore, Cupido, brav’uomo. Un mondo di fine infanzia che è un po’ realtà, un po’ fiaba da auto-raccontarsi, un po’ incubo, un po’ impresa, un po’ liberazione: partire da uno sguardo attraverso una crepa per allargare definitivamente gli orizzonti. È per questo che importa solo relativamente che, in qualche snodo di trama, possa apparire qualche leggera forzatura di scrittura, che non proprio tutti i rapporti di vicinato scorrano perfettamente fluidi nelle azioni e nelle reazioni, che si possa ravvisare qua e là qualche cosa di brusco fra chi sparisce e chi ritorna. La vera forza di Piano piano è nella sua sincerità, nella profonda onestà di un film piccolo eppure sentito, personale, con cui affrontare l’irrisolto e cavalcare un sentimento. Quello che conta è la tenerezza (in)conscia di due mani che si sfiorano mentre Peppino si arrampica fino al balcone per vedere Anna, quello che conta è la statua della Madonnina su cui specchiarsi per togliersi il trucco prima di rientrare a casa dalla madre, quello che conta sono le dinamiche di vicinato, a guardare gli altri e a poi sparlare sul cortile. Contano i litigi, conta il ritrarsi al momento del bacio perché si crede ormai di volere qualcun altro più grande, contano le punizioni con cui crescere e maturare, magari lasciati in mutande in cortile proprio da quel padre che tornerà salvifico nel momento del bisogno, o ancora spinti ad alzare il livello criminale da quell’altro padre-boss al quale nessuno può dire di no. Conta solo il trasporto di quel bacio (l’ultimo? o forse il primo?) mentre il camion sta per andare via, lontano da quel mondo, fra le bandiere di Napoli in festa. Conta solo quella baracca in fiamme, solo poche settimane fa sostanziale giardino incantato e ora finalmente mucchio di cenere seppellita da qualche parte fra i ricordi non più dolorosi. Conta iniziare finalmente una nuova vita, in cui gli unici spari siano quelli di gioia dei fuochi d’artificio. Poi, a chi in quel momento di passaggio non c’era, non resterà che dire ancora una volta «che vi siete persi».
Marco Romagna