Il finale commovente di Leila’s Brothers, le barche che danzano ipnotiche sulle onde di Pacifiction, gli strabilianti cambi di fuoco nel pianosequenza fisso dell’assemblea cittadina di R.M.N., il razzo da far partire con il nonno in Armageddon Time, il sarcofago cronenberghiano di Crimes of the Future, o ancora i flicker rossi e le lacrime di EO, le mani da lavare e la confessione di Esterno Notte, il bagno alla madre e l’incontro con l’amico proibito di Nostalgia. Ma pure la dolcezza terminale di Magdala, il finale raggelante di Holy Spider, l’ossessione pulsante di Antonina Ivanovna Miljukova passata alla Storia come Tchaikovsky’s wife, e ancora il sarcasmo queer e i cazzi in faccia al colonialismo di Fogo-Fatuo. Resteranno a lungo negli occhi diverse immagini, di questa Cannes75. Nessuna o quasi andata a premio, ma capita spesso che il meglio rimanga fuori. Non avrebbe senso però fare polemiche o stracciarsi le vesti per un qualcosa che in fondo è poco più che un gioco, capace al massimo di spostare qualche migliaio di spettatori nel breve periodo: non sono i premi a decidere chi meriterà un posto nella Storia del Cinema e chi invece finirà ben presto nell’oblio, e per ogni Palma o Leone di troppo ci saranno sempre decine di capolavori da studiare. Al massimo ci si può rammaricare per un palmarès evidentemente di compromesso, con una moltiplicazione di premi fatta di ben due ex-aequo per Premio della Giuria e Grand Prix, con una seconda Palma al cinico Östlund per una commedia sulfurea indubbiamente riuscita ma lontana anni luce da un (tanto più secondo) riconoscimento del genere, con i Dardenne che non tornano mai a casa a mani vuote e con David Cronenberg e James Gray che invece non vincono mai, con Cristian Mungiu questa volta incompreso dopo i due premi consecutivi degli ultimi lavori e con Albert Serra e Saeed Roustaee a cui non bastano tre ore a testa di (linguisticamente e narrativamente opposta) meraviglia. Certo, c’è stata anche qualche delusione. Un Desplechin che a furia di sottrarre finisce insospettabilmente fuori fuoco, una Kelly Reichardt poco ispirata che ripercorre sentieri sicuri ma perde il cuore in una metafora ornitologica, un Lucas Dhont di maniera e di ricatto che spreca quasi tutto il credito di Girl. Ma senza reali abissi, in un’edizione forse avara di capolavori assoluti e insolitamente anonima e sottotono nelle sezioni collaterali, ma con un concorso principale di un livello medio altissimo, così diverso e dal sapore “veneziano” rispetto a quella tradizione di vette vertiginose e colossali tonfi da diversi anni tipica della Croisette.
Del resto, è stata per molti versi una Cannes diversa dal solito, nonostante il tentativo di ostentare il più possibile normalità con solo qualche sparuto italiano a indossare ancora la mascherina. E non solo – dopo diversi anni di fortuna e viaggi al sole prima o poi doveva succedere – per i minuti di personalissimo e puro terrore da Bordighera ad Arma di Taggia quando durante il ritorno, a 110km/h su due ruote in autostrada, qualche minacciosa goccia di pioggia ha iniziato a solcare il parabrezza dello scooter, e nemmeno solo per lo sponsor MasterCard a sostituire lo storico Orange sui consueti (anche se stavolta ben più spessi) cordini neri per i badge. È stata una Cannes diversa, se non altro, per il crollo qualitativo del cinema francese, da sempre una certezza in Costa Azzurra e invece quest’anno sorprendente in positivo solo con il netto passo avanti autoriale dello spassoso e teoricissimo Louis Garrel, e con la mano italiana di Valeria Bruni Tedeschi in concorso eppure non premiabile perché nessuno a Cannes si era accorto della piccola particina della figlia del Presidente di Giuria Vincent Lindon. Ma è stata una Cannes diversa anche e soprattutto perché molto più affollata rispetto all’edizione pandemica estiva dello scorso anno ma molto meno rispetto agli anni pre-Covid, sia per quanto riguarda i fan e i curiosi accalcati sulla Croisette sia, all’interno del Palais, per quanto concerne gli addetti ai lavori, con pochissimi asiatici e ancora meno statunitensi, e soprattutto con la totale assenza degli accreditati russi che il Festival, nell’attuale situazione geopolitica, ha preso la per lo meno discutibile decisione di non accettare esclusivamente in quanto russi. In un’edizione aperta dal collegamento di Zelensky, in tutta la selezione ufficiale la Federazione Russa è stata rappresentata dal solo aperto dissidente Kirill Serebrennikov, perdendo per strada chissà quante altre voci contro che riescono invece a infiltrarsi fra le maglie della censura come solo pochi mesi fa, caso vuole pochissimi giorni prima dello scoppio del conflitto in Ucraina, aveva fatto lo splendido Zolothukin antibellico di Berlino. Tanto da far riecheggiare nella mente le ben più sagge parole del comunicato in merito alla situazione bellica rilasciato qualche mese fa dal Festival di Locarno, in cui la manifestazione ticinese che avrà come sempre luogo in agosto, nello schierarsi in maniera altrettanto aperta con la popolazione invasa e contro i crimini di guerra, dichiarava di aver deciso di lasciare aperte le porte alle opere russe, rilevando come il cinema e l’arte in generale siano da sempre la prima forma di Resistenza e non possa certo essere una censura preventiva un po’ razzista a tarparle le ali. Ma sono due mondi diversissimi, Cannes e Locarno. Due visioni troppo differenti e quasi imparagonabili di cinema, di ambiente e di evento.
Nonostante Cannes sia diventata assai più democratica e a misura d’uomo rispetto a quel che era, con l’effetto Bataclan che si allontana e la tensione finalmente allentata con controlli antiterrorismo di gran lunga più agili e veloci, e con la (graditissima) conferma del sistema di prenotazione dei posti in sala dopo la sperimentazione ‘obbligata’ dell’edizione estiva 2021 capace, dopo qualche zoppia (inizialmente grave, ma prontamente risolta) nei primi giorni, di garantire gli accessi senza più ore di coda né rischi di rimanere fuori. Un sistema che elide finalmente il classismo, con l’apertura – una volta ottenuto il biglietto, fra le “lotte” internautiche delle 7 del mattino (perché non la mezzanotte precedente? Ma non chiediamo troppo…) e i last minute degli ultimi giorni precedenti alla proiezione – delle platee della Debussy e della Lumière anche a quelle categorie di accrediti che erano sempre stati a prescindere destinati alle piccionaie. Certo, qualche film lo si è perso lo stesso, è inevitabile che accada, ma anche su questo punto le repliche al multisala a La Bocca hanno di molto migliorato la situazione. Il resto della democrazia, come sempre, lo fa molto più della Terrazza dei Giornalisti – troppo esposta al sole per essere realmente vivibile, per poi chiudere fantozzianamente dieci minuti prima del tramonto – la mensa per i lavoratori del Palais con la sua uguaglianza due piani sotto terra, così squallida e industriale e proprio per questo bellissima, viva, pulsante, forse l’unica zona “vera” in una continua finzione. Ma anche i provvidenziali Croque Monsieur a 3 euro del baracchino di fronte alla stazione, aperto sempre tranne l’ora di cena con il suo geniale orario continuato 2-20, fanno il bello di Cannes. Perché ogni tanto bisogna pur uscire dal Palais, così lussuoso, comodo e iperfunzionale nei suoi sette piani e nelle sue mille terrazze sul mare quando ci si trova all’interno, eppure un vero e proprio ecomostro quando lo si guarda dal castello sulla collina, durante quell’Aïoli unico reale momento conviviale e di condivisione (anche se, va detto, quest’anno del tutto insufficiente nell’erogazione di Sainte Croix Rosé e non particolarmente generoso nelle porzioni) dopo due settimane di stress intensivo. Ecco, di Cannes75 rimarrà anche quel pranzo, oltre ai film e alle singole sequenze. Rimarrà quell’assottigliarsi sempre più del confine fra colleghi e amici, fra persone che si stimano e compagni di bevute dialettiche. Rimarrà la consapevolezza di ritrovarsi lì l’anno prossimo, dove ogni scalinata – quest’anno nuovamente con le classifiche di registi sui gradini, per celebrare i tre quarti di secolo – porta alla Palma. Ecco, magari dopo i due regali consecutivi a Titane e Triangle of Sadness non sarebbe male se tornasse a essere una Palma destinata a rimanere per davvero. Almeno per un po’.
Marco Romagna