Al suo settimo film da regista, la pluripremiata attrice Valeria Bruni Tedeschi si aggiudica un posto nel concorso principale di Cannes75, presentando un film a metà tra realtà e finzione che è un omaggio tanto a Patrice Chéreau che dopo la messa in scena del Platonov di Checov l’aveva lanciata al cinema con Hotel De France (1987), quanto agli anni della sua formazione al Theatre Des Amandiers di Nanterre sotto la sua guida. Ma Les Amandiers è più in generale un’ode alla giovinezza, alle emozioni, all’arte e all’eccitazione di quel periodo in cui tutto vale e tutto sembra immortale ma che presto sarà un ricordo, una fotografia sbiadita. Come quelle degli anni ’80, raccontati qui con un filtro giallognolo e con il suono di Jacques Prevert e delle grandi icone della musica francese del periodo, ma soprattutto nelle contraddizioni di un decennio che si trascina dietro le sue perplessità e problematiche, droga e HIV, ma anche le speranze e il fermento di una generazione già perduta ma ancora in grado di sognare in grande, di sperare e di strappare la vita a morsi. Eros e Thanatos, così li vediamo attraverso gli occhi di una classe di studenti di teatro: un teatro che è “il centro d’Europa”, ma è soprattutto il centro di queste vite che si incastrano da quando, dopo catastrofiche audizioni, un foglio sulla porta comunica chi saranno i fortunati a condividere quei mesi di sudore, sacrificio e dedizione, ma anche di esplorazione, sesso e verità.
Quest’ultima infatti è richiesta a loro espressamente, come quando in un workshop all’Actor’s Studio vengono messi di fronte a loro stessi, al loro passato, ai loro demoni. Perché la consapevolezza è l’unica cosa che conti, nella vita come nell’arte. Il passaggio nel rinomato centro di recitazione newyorkese colora il film di una tonalità in più rispetto a quella bertolucciana – confermata dalla presenza di un ispirato Louis Garrel nel ruolo di Chereau e presente in maniera lampante non solo nelle scelte estetiche (che talvolta potrebbero risultare un po’ studiate ma poi si scoprono sincere, e poi in fondo sono così belle che va bene così). Se infatti l’opera, per ambientazione, tono e in parte contenuti, condivide la stessa atmosfera di The Dreamers (2003) – entrambi curiosamente ambientati 35 anni prima, il più vecchio nel ’68 e l’ultimo nell’86 di Chernobyl – la presenza di New York e il suo ritorno nel finale confermano semmai lo sguardo della regista a Panico a Needle Park (1971), perfetto ritratto neohollywoodiano di amore e droga. A differenza del film di Schatzberg però, dove i personaggi interpretati da Kitty Winn e Al Pacino erano sì avvolti da una passione bruciante ma solo quella verso l’altro, Les Amandiers lascia perdere la crudezza, perché la disperazione di Stella ed Etienne sta più nella voglia disperata di vivere loro stessi, il teatro e la vita, e farlo all’estremo, tanto che l’eroina che lui sniffa o si inietta è quasi un di più, un contorno.
Con una regia libera come diversamente non ci si poteva aspettare da Valeria Bruni Tedeschi – una regia disordinata da una camera movimentata che slabbra gli spazi e indaga i personaggi a cui si avvicina per mostrarne l’animo indipendentemente dal loro peso nella narrazione, come a dare a ognuno la stessa importanza (perché il teatro è un sistema organico in cui anche la più piccola parte è indispensabile), e quindi con una regia infine democratica – il giovane amore dei due si consuma come una miccia, tale d’altronde è la brevità del tempo a loro concesso. Si consuma tra le mura della scuola, dei bar francesi, di una villa un po’ barocca sorvegliata da un vecchio maggiordomo scettico verso le attrici, che devono fare attenzione a non morire pazze, tristi e sole; si consuma tra le portiere delle automobili degli amici quando si canta a squarciagola e si va veloci per provare l’adrenalina, e poi all’aperto dei parchi e dei marciapiedi e delle strade. Un amore che è anche brutale, senza regole, senza confini e senza limiti, se non quelli imposti dalla crescente tossicodipendenza di lui di fronte alla quale le suppliche della fidanzata non servono a niente.
Mettendo in luce le dinamiche di un gruppo in cui tutto vale – fare l’amore l’uno con l’altro, forse scambiarsi malattie perché si respira la stessa aria e si scambiano gli stessi liquidi, supportarsi, insultarsi, schiaffeggiarsi, adorarsi – Les Amandiers è da subito il canto di una gioventù disperata e disperatamente unita, che cerca di eternarsi con il teatro. Così già aveva dichiarato durante il provino Stella, un nome che la accosta ad uno dei grandi personaggi di Tennessee Williams (a cui peraltro si fa riferimento quando Etienne grida il nome di lei alla Stanley, o meglio alla Marlon Brando), anche se in realtà fin da subito ricorda più Blanche, quando le si chiede perché vuole fare l’attrice e risponde di essersi un giorno guardata allo specchio e aver visto «il tempo che passava e la mia giovinezza che svaniva». E con Blanche peraltro condividerà presto il dolore per l’amato scomparso – «He was a boy, just a boy, when I was a very young girl» – qui non direttamente suicida ma in pratica sì, nell’autodistruzione di un’overdose prevedibile che renderà presto tutto (forse)solo un ricordo opaco, quello di una folgorazione avvenuta «all at once and much, much too completely», come un faro nella notte, così come lo descrive il drammaturgo americano.
E se è vero quello che dice la stravagante e adorabile Adèle, che quando sei sull’orlo di un precipizio e stai per cadere nel vuoto «le parole degli altri, quando sono belle, sono come un parapetto», qui non c’è che da scegliere dove aggrapparsi perché queste non mancano. La sala del teatro, così come quella cinematografica, si riempie di citazioni che non sono un facile escamotage, ma una dichiarazione di amore all’arte della rappresentazione: La Puttana Rispettosa di Sartre, Le Lacrime Amare di Petra Von Kant di Fassbinder, la Berenice di Racine e così via, che rendono le vette più alte della drammaturgia non sono solo una valvola di sfogo e nemmeno un balsamo o una medicina, ma un vero e proprio salvavita. Diventano infatti l’unica possibilità di sopravvivenza dopo la scomparsa di Etienne, che la regista non mostra direttamente ma racconta per telefono, con una scena in cui l’interpretazione di Nadia Tereszkiewicz non può che lasciare disarmati: se il dolore avesse un suono sarebbe prima un urlo, e poi il silenzio.
Restano solo le parole di Checov da quando lo spettacolo finale viene comunque messo in scena perché the show must go on, ma non solo per quello. Non solo perché entrare da quella porticina, mettersi il costume con difficoltà e provare a recitare è quello che i soldati dell’arte sanno fare e devono fare, ma perché è l’unico modo di dare un senso, è una necessità. Così quando la mano di Patrice con delicatezza spinge Stella in scena, lasciando il pubblico della sala cinematografica dietro le quinte con lui ad ascoltare la voce della sofferenza trasformarsi in qualcosa di bello sotto la luce dei riflettori e sotto quella della nuova consapevolezza, si capisce quanto espresso perfettamente da Carrie Fisher: «take your broken heart and make it into art». L’arte della finzione è forse allora l’arte della verità, l’unica possibile risposta di fronte al mistero del destino umano, di fronte al fiume del tempo che spazza via tutto, i ricordi e la pelle fresca e piena di quando siamo giovani. La rappresentazione si erge a religione laica ed è in grado di strappare dall’oblio dei giorni che passano per restituire alla vita chi scompare, attraverso la linfa dei personaggi-persone che saranno incisi nell’animo collettivo dell’umanità come pitture rupestri – le uniche a sopravvivere quando i loro creatori e i loro soggetti non ci saranno più. Ma le parole (o le immagini) resteranno, ad alimentare e rinnovare il fuoco della condivisione. Les Amandiers è in questo senso un film sull’emozione e sull’emozione condivisa, sulla consapevolezza che viene quando si sanno guardare in faccia se stessi e i propri fantasmi, e li si sa domare/donare perché diventino qualcosa di più grande.
È questa la consapevolezza che cerca Stella, quando dopo anni ritorna nella New York che era stata galeotta del suo amore per ritrovarlo, di nuovo attraverso l’arte. Quando durante un esercizio tipicamente da metodo Strasberg (quello per cui d’altronde è noto lo Studio) riporta in vita Etienne, con la sua pelle fresca, il suo piccolo orecchio che ora lei vede e sente. E la giovane ora cresciuta, con i capelli diversi e lo stesso viso ingenuo, rimane anche dopo che tutti vanno via. A smezzarsi una sigaretta immaginaria con lui, a ballare, a farsi il solletico, a guardarsi, ché se la vedesse il maggiordomo direbbe che è diventata pazza per davvero. Ma soprattutto a lasciarsi osservare, senza saperlo. È rimasta l’insegnante a assistere in disparte alla scena, e basta una persona a diventare pubblico. E così, inconsapevolmente la tragedia della giovane attrice (ri)diventa teatro, (ri)diventa bellezza, (ri)diventa senso, eternata nella condivisione che è quasi un infinito passaggio del testimone, affinché ciò che si è vissuto rimanga bruciante per sempre e non svanisca nei trilioni di fatti della quotidianità che si sussegue.
E allora Etienne, come i mandorli che sbocciano per primi anche in inverno per poi sfiorire altrettanto in fretta e costituire pertanto una metafora della giovinezza – è davvero restituito alla vita, con il suo sguardo tenebroso che non vediamo ma ricordiamo e la sua voce rauca di troppe sigarette che ora sostituisce quella di Buscaglione e che sentiamo realmente insieme a Stella, mentre canta Guarda che luna.
Valeria Bruni Tedeschi regala al pubblico di Cannes un film di corpi e di desideri, fisico e tattile come il Super16mm su cui è fotografato. Un’opera di vita, di morte, di gioventù e di messinscena, disordinata come sono spesso i personaggi che la regista interpreta, perché non c’è niente di comprensibile in questa vita di pazzi che non possiamo smettere di celebrare non solo vivendola e ma rappresentandola. E una disperata speranza chiude Les Amandiers e fa uscire dalla sala scossi, turbati e paradossalmente gioiosi nella consapevolezza di come tutto sia effimero e forse per questo più prezioso, e di come d’altronde ci sarà sempre, da qualche parte, il parapetto di una bella parola o di un’immagine a cui aggrapparsi per non cadere nel vuoto.
Bianca Montanaro