Una strega si presenta sotto mentite spoglie in pieno lockdown e infesta una casa controllandone e torturandone i proprietari, un marito isolato in una grotta nascosta cerca teneramente di guarire la moglie dalla zombificazione, un’infermiera in ospedale si ritrova catapultata in un’orrorifica dimensione parallela dove viene ripetutamente attaccata da un’oscura e vendicativa presenza che nessun altro riesce a percepire, e infine una madre disoccupata e pessima cuoca ottiene da un ambiguo contatto social un ingrediente segreto con cui rendere il suo kare-kare buono e richiesto come una droga, ancora ignara di quelle che saranno le devastanti conseguenze. Quattro spunti di trama perfettamente inseriti nella contemporaneità pandemica eppure tutto sommato classici, perfettamente archetipici nell’affrontare i rispettivi sottogeneri di riferimento, per quattro episodi indipendenti per titolo, forme, saturazione, durata e personaggi con cui il sempre eclettico filippino Erik Matti, solo pochi mesi dopo l’action-pulp di On the job 2: The missing 8, cambia ancora una volta genere, e torna alle forme di un horror (multi)claustrofobico puntellato da più d’una pennellata comica e da insistiti elementi gore e splatter. Eppure non sono affatto pochi i possibili livelli di lettura del suo nuovo e brillante Rabid (nulla a che vedere con l’omonima opera quarta di Cronenberg), uscito lo scorso novembre in patria e ora in prima internazionale a Udine sul grande schermo del 24mo Far East Film Festival. Un po’ per l’ambizione del regista e della compagna e storica co-sceneggiatrice Michiko Yamamoto di cristallizzare in immagini sullo schermo le inquietudini collettive dell’epidemia di Covid, con il senso di impotenza e l’impressione di impazzire del lungo isolamento, con la paura di ritrovarsi a fronteggiare il dolore di una lunga (o addirittura infinita, nel caso degli zombie) morte, con i nemici invisibili contro cui combattere nelle corsie d’ospedale e con le interazioni con il mondo esterno ridotte al silicio di uno schermo, e un po’ per far deflagrare ancora una volta la consueta vis politica e sarcastica di Matti, denunciando ed attaccando apertamente l’ipocrisia borghese e le disparità di classe, l’inefficienza e la scarsa professionalità del sistema ospedaliero, le iniquità e le storture in un mondo del lavoro che ha sempre già assunto qualcun altro, l’invasività e i pericoli di una realtà internautica e social dove non conta essere (o nel caso specifico saper cucinare), ma semplicemente apparire. Del resto è sempre stato un regista mainstream e popolare eppure profondamente politico Matti, nella qualità alterna dei suoi lavori sempre intimamente antiborghese, sempre pronto a denunciare fra le righe la corruzione dilagante nelle Filippine di ieri e di oggi, sempre pronto a mettere in luce e ridicolizzare in una comicità grottesca e sorniona le ipocrisie e le contraddizioni della società.
Particolarmente emblematico è in tal senso l’episodio ospedaliero, con la figura dell’inquietante anziana visibile solo nella dimensione parallela – evidente nel suo aspetto l’omaggio a Shining, con la stanza nosocomiale 207 che prende il posto sia della camera 217 kinghiana sia della 237 che fu di Kubrick – che si risveglia dal coma per, letteralmente, spalmare la propria merda in faccia all’infermiera che non pulisce i pannoloni dei degenti, trascinandola in un disgustoso contrappasso incubale senza possibile via d’uscita. Quasi come se la vecchia, con il suo vomito e le sue deiezioni a punire per una ben precisa colpa, non incarnasse solo il Male o l’ennesima declinazione di un virus che diventa visibile solo per chi ne viene colpito e non per gli altri, ma una vera e propria vendetta (che prende forma nello stesso atto iconoclasta ipotizzato da Elio e le Storie Tese ai tempi della loro Shpalman, anche se è difficile pensare che qualcuno possa fare questa associazione al di fuori dell’Italia) della popolazione meno abbiente verso l’incuria e l’abbandono a cui viene costretta dalle strutture pubbliche, verso la scarsa professionalità nei servizi sanitari, verso una società intimamente iniqua e classista, e nemmeno troppo in filigrana verso le scellerate decisioni in tema di politica pandemica del (mal)governo autoritario di Duterte. Tanto che non è certo un caso la scelta di Matti di aprire questa antologia con l’episodio più lungo e corposo, l’unico che nomina esplicitamente il Covid e le regole sulla quarantena, fino a sfruttare apertamente l’epidemia come grimaldello per introdurre nella casa borghese la strega travestita da mendicante sordomuta. Una fattucchiera identificabile ovviamente nell’insinuarsi meschino del virus fra le mura domestiche fingendosi una persona bisognosa d’aiuto, ma anche e forse soprattutto in una sostanziale vendetta del sottoproletariato che fa – letteralmente – sbattere la testa alle classi più agiate, fino a schiacciarle come quelle mosche tanto invasive e moleste che paiono quasi attaccare anche la macchina da presa. È l’elemento che fa perdere l’autocontrollo, il libero arbitrio e ogni tipo di volontà, che con i suoi incantesimi e le sue ipnosi distrugge dall’interno il conformismo di facciata e la falsa carità della famiglia che per lavarsi la coscienza la accoglie, senza mai smettere di guardarla con aria di superiorità e sospetto, come potenziale colf e mai come reale ospite. Che poi, a ben vedere, è la stessa aria di superiorità già espressa dalla lunga scalinata che, sopraelevandola oltre il cancello, separa ulteriormente la loro porta di casa dalla strada. Un simbolo con cui apparire, mostrarsi, ostentare già dall’architettura della propria abitazione il proprio status privilegiato. Proprio come le presenze malvagie, che devono indossare una maschera e fingersi altro, una senzatetto, un’innocua vecchina in coma lasciata sulla sua sedia a rotelle, o ancora un sito Internet in cirillico da tradurre dal russo per ottenere risultati mirabolanti. Del resto pure la protagonista del cortometraggio conclusivo, scartata via mail dopo ogni colloquio (con ogni probabilità a sua volta dematerializzato su Zoom) e perfino bannata dai gruppi social, ha bisogno di ripulirsi e di apparire in rete per inventarsi il lavoro con cui sopravvivere. Fino a giungere, proprio attraverso la sua ritrovata immagine all’apice del successo, alla più beffarda fra le piogge di comunicazioni di assunzione quando ormai è già troppo tardi, il figlioletto è già perduto nella sua infezione/dipendenza dall’ingrediente segreto, la casa è già stata assaltata dalle frotte di famelici clienti ormai incapaci di aspettare la preparazione del piatto, e quella stessa rete virtuale che le aveva cambiato la vita facendole trovare la ricetta per il successo culinario – a sua volta altra declinazione del virus e dell’espandersi esponenziale del contagio – non ha saputo fornire alcun antidoto all’inevitabile tragedia. Solo altra morte, altra devastazione, altro dolore, ulteriore e sempre più siderale distanza fra uomini ancora più divisi, ancora più isolati, ancora più egoisti, ancora più impauriti e violenti. E pensare che c’era chi diceva che ne saremmo usciti migliori…
Marco Romagna