«Dedicato a mio fratello Vittorio». Lo scrive sullo schermo in corsivo Paolo Taviani, di proprio pugno, personalmente. Con tutto il cuore. Cos’è del resto il suo Leonora addio, primo film realizzato in solitaria dopo la morte del fratello e inossidabile compagno di cinema, se non una straziata lettera d’addio a Vittorio, il riflettere di chi è rimasto e si sente orfano non tanto sulla (sua) morte, ma sul(l’impossibilità di un reale) distacco? Come se Paolo, che pure nell’avanzare della malattia di Vittorio aveva già dovuto firmare da solo la regia del fenogliano Una questione privata (ma non la sceneggiatura e l’approvazione finale, ancora di entrambi in quello che sarebbe stato destinato a essere l’ultimo film “dei fratelli Taviani”), fosse rimasto solo la metà di un unico autore, di una visione da sempre discussa e condivisa con il fratello maggiore, e che ancora adesso non può fare a meno di cercare costantemente il suo sguardo e la sua mano. A partire dalla centralità assoluta data ancora una volta alla figura di Luigi Pirandello, fra le principali ossessioni letterarie e drammaturgiche di tutta una vita non solo artistica dei Taviani, già culminata sugli schermi prima nel 1984 e poi nel 1998 con i loro Kaos e Tu ridi tratti entrambi dalle sue Novelle per un anno. In Leonora addio, però, non ci sarà nemmeno un accenno alla trama dell’omonima novella pirandelliana, già presa in considerazione in passato insieme a Vittorio per un adattamento ma alla fine mai girata dai fratelli. Semmai sarà Il chiodo, scritto dal grande autore siciliano una ventina di giorni prima di morire, a farsi ancora una volta episodio per prendere improvvisamente vita e colore sullo schermo, in una seconda sezione che sposta il film dall’Italia del pieno Novecento alla Harlem degli albori del secolo, dalla reale vicenda di Pirandello all’ultima vicenda immaginata da Pirandello, fino al commovente finale che vede il ritorno puntuale e fedelissimo di ogni anno sulla stessa tomba fra destino, morte, mancanza, lealtà, rimpianto, e forse pure un minimo di illogico e umanissimo senso di colpa del regista per essere rimasto il fratello ancora in vita. Ma Pirandello è prima di tutto un’anima, in Leonora addio, e non (solo) l’ennesima storia tratta dalla sua ispirazione. È un corpo, è un’urna cineraria, è un viaggio, è un simbolo la cui morte e mancanza – ma mai reale fine, con il lungo peregrinare dei suoi resti prima della definitiva sepoltura e con l’eredità inesauribile della sua produzione – non può che sovrapporsi a quella di Vittorio Taviani che tanto lo ha amato, capito, rielaborato e vissuto. Una figura, quella di Luigi Pirandello, a cui rendere il definitivo omaggio e finalmente giustizia, attraversando con il racconto dei suoi tre funerali e del suo desiderio di riposare per sempre nel mare, o al massimo «murato in una rozza pietra della campagna dove sono nato», un intero secolo – breve – di Storia e forse soprattutto di cinema, di atrocità e di emigrazioni, di frammenti (neo)realisti e di fotogrammi preesistenti per l’occasione riscritti, reinventati, ricostruiti e ricontestualizzati, fra i cinegiornali d’epoca, il Rossellini di Paisà, Il sole sorge ancora di Vergano e Il bandito di Lattuada, fino alla muta alienazione delL’avventura antonioniana.
Non è un caso che Leonora addio, presentato altrettanto simbolicamente nel concorso di quella Berlinale che dieci anni fa i fratelli Taviani avevano vinto insieme con il loro Cesare deve morire, si apra a Stoccolma con la cerimonia di consegna a Luigi Pirandello del Premio Nobel per la Letteratura 1934, con le immagini d’archivio montate dal sempre grande Roberto Perpignani che si innestano nel lucido bianco e nero del regista, interrotto in tutta la prima sezione solo dal rosso delle fiamme nell’inceneritore. Eppure sarà destinata a durare ben poco la consacrazione in vita dello scrittore, già sul letto di morte per polmonite fra i figli un tempo bambini e ora già imbiancati, e poi semplice necrologio sui giornali in un’Italia fascista che “se ne frega” delle sue ultime e precise volontà di essere riportato nella natura della sua Sicilia, per murare le sue ceneri per quindici anni nel cimitero romano del Verano in attesa che solo la fine della guerra lo potesse finalmente riportare a casa in un viaggio lungo altri lustri e altre superstizioni popolari, altri funerali e altri paradossi, altre situazioni grottesche e altri brividi poetici di emotività e dolore. Fino all’ultimo atto di giustizia, a quella definitiva forma di rispetto e gratitudine nei suoi confronti, al ritorno del colore di quel mare e di quel vento in cui finalmente disperdere almeno una parte delle sue spoglie dopo decenni di grigiore. L’unico modo per poterle poi ritrovare in ogni onda e in ogni brezza, ma soprattutto per soddisfare la sua ultima richiesta, l’ultimo desiderio di un poeta, con un gesto che è l’ultimo e più accorato omaggio alla sua lirica. Alla ricerca di un suo ultimo e postumo sorriso, che possa finalmente dipingersi straziato e dolcissimo sul volto dello scrittore e drammaturgo spezzandone almeno per un attimo l’amarezza e le sofferenze della vita e della morte. Magari proprio come quell’ilarità che l’etichetta bollerebbe come irrispettosa e fuori luogo, eppure semplicemente impossibile da trattenere di fronte alla tenera e al contempo perfida ingenuità dei bambini, che esplode durante il secondo corteo funebre dell’urna di Pirandello lungo le strade dell’Agrigento postbellica del 1946, omaggiato dai suoi attori e da una città tutta in piedi sui balconi a guardarlo in una bara da neonato perché quelle grandi erano finite, e il vescovo locale mai avrebbe accettato di benedire un vaso greco al posto di un simbolo cristiano. Forse è lo stesso colpevole (sor)ridere di quando l’auto militare che trasporta le ceneri del maestro sfreccia due volte fra gli improperi dei ciclisti sul ciottolato dell’Appia Antica, o di quando di fronte alla paura di «viaggiare con un morto» tutti i passeggeri del pionieristico volo per la Sicilia decideranno di scendere fra una toccata di coglioni e un gigantesco ferro di cavallo, contagiando con i loro ancestrali tabù popolari pure il pilota americano che decide con una scusa di spegnere i motori e annullare la traversata. Forse è lo stesso (sor)ridere amaro e bizzarro del viaggio in treno lungo mezza penisola fra pianoforti, sigarette, piedi nudi, biscazzieri ed ex prigionieri siciliani che portano per la prima volta a casa le sposine alsaziane, quando la cassa con dentro le ceneri di Luigi Pirandello sembrerà essere stata rubata e invece sta solo facendo da tavolo per una partita di tressette, non certo a caso, col morto. Forse persino il giovane Bastianeddu della sua ultima novella, pur non potendo mai dimenticare quel chiodo insanguinato caduto «apposta» dal carro e quel suo atto inconsulto contro un’innocente quando in realtà avrebbe solo voluto dividere le litiganti, riuscirà prima o poi in qualche modo a sorridere, nel suo legame inossidabile e infinito che lo porta a tornare anno dopo anno sulla tomba di quella bambina che avrebbe voluto difendere e che invece per una bizza del destino, senza motivo, ha finito per uccidere. L’ennesimo possibile scenario da mettere «sotto braccio» di una vita ormai finita, eppure ancora in qualche modo presente e più che mai vitale nello sguardo e nel cinema del Taviani superstite, nel suo tormentato senso di mancanza, nella commovente tenerezza del suo cuore aperto. Non gli restano che i fazzoletti bianchi legati in cima ai rami, in segno di ultimo saluto verso quel fratello partito per sempre. Vittorio Taviani, ovunque sia, li vedrà sventolare e magari si commuoverà abbracciando proprio Luigi Pirandello, pensando a come Paolo li abbia sovrapposti e resi ancora più immortali un film slabbrato, sentito, sofferto, divertente, miracolosamente lieve nell’affrontare la sua inevitabile malinconia. Un film dolorosamente imperfetto nelle sue gag amare e nelle sue due parti nette e necessariamente squilibrate, e proprio per questo bellissimo, ancora più sincero, ancora più toccante, ancora più emotivo, ancora più a cuore aperto. Chissà quanto si staranno emozionando e divertendo a vederlo da lassù, il maestro scrittore e l’allievo regista che finalmente si sono potuti incontrare. E chissà quante storie ancora cercheranno di suggerire a Paolo, andandolo a trovare durante le notti dei suoi sogni più belli.
Marco Romagna