È con il suo lungometraggio d’esordio che il regista ungherese Gabor Fabricious sbarca anche al Lido di Venezia, in concorso nella cornice collaterale della trentaseiesima Settimana Internazionale della Critica dopo che i suoi precedenti cortometraggi, un Festival dopo l’altro, hanno fatto il giro del mondo. I contenuti che tratta non sono certo leggeri, come questo dramma politico ambientato al di là della cortina di ferro dell’Europa Orientale il cui protagonista è Frank, che compare nel titolo alla destra di quel verbo che non si vorrebbe mai vedere accostato al proprio nome. Cancellare Frank è la missione governativa, e mantenersi Frank è quella del giovane cantante, nella sua resistenza che è la storia del film, sorta di punto d’incontro tra Qualcuno volò sul nido del cuculo e Il figlio di Saul. Ma questa volta non sono né il manicomio di Salem né il campo di Auschwitz i terreni dello scontro di Bene e Male, bensì la Budapest sovietica. Tramontato quel sogno di indipendenza e di restituzione della dignità di nazione a sé stante che aveva animato la rivoluzione ungherese del ‘56, il film si apre sulla storicità dei fatti con i filmati d’archivio che sono l’inquietante marcia delle truppe sovietiche d’occupazione, accompagnata dal fischio acuto di una chitarra elettrica. Siamo ora nel 1963, e la capitale magiara è da subito presentata come una città notturna, confusionaria e punk. Così la regia, figlia dell’influenza del connazionale László Nemes, la riprende fin dalla prima scena, quando una macchina da presa a spalla e traballante insegue senza scampo il protagonista e due compagni in un calzante e incalzante bianco e nero che sarà caratteristico di tutto il film .
Il pubblico è offuscato dalla nebbia fumosa nel buio, e assordato dai rumori di sirene e carri armati che sono in fondo quelli che di più vicino al punk questa città può donare. Quella che i tre combattono è una guerra senz’armi per la verità. «Molto è stato detto e su molto ancora si è mentito (…) al punto che non avevo più domande da porre» afferma la voce di Frank fuori campo. Una verità che si può «sentire nello stomaco» perché non ha bisogno di parole, che anzi ingannano. Così più avanti aprirà il concerto con questa frase: «Ci siamo fidati di lui. Ci ha parlato come se fosse uno di noi. Parlava, parlava, parlava. Ha continuato a parlare fino a portarti a credere che tutto quello che fossi fosse quello che lui voleva. Vomitava parole dalla sua bocca mentre risucchiava il resto». Ma la verità, quando viene raggiunta deve essere parlata, o meglio «fottutamente urlata ad alta voce». Anche se le urla non sempre sono udibili, come quelle che i compagni si lanciano da un lato all’altro della galleria, attraversata dal rombo dei motori. Ma saranno udibili eccome durante quel concerto clandestino, coraggioso e interrotto bruscamente dalla polizia, che letteralmente strappa dalle mani degli artisti sul palco (la band appunto punk in cui il protagonista è cantautore) i loro strumenti musicali o meglio strumenti politici, l’unica arma che hanno a disposizione per la loro rivoluzione. E poi il titolo, che si staglia nell’improvvisa assenza di rumore e aleggia per qualche secondo in più del previsto, come ad anticipare quello che sarà il modo con cui l’operazione di cancellazione dell’individuo verrà compiuta: gli si toglierà la voce, mentre la colonna sonora del film, fatta per lo più di suoni diegetici o di rielaborazione degli stessi come quell’interferenza elettronica amplificata che talvolta riecheggia come a diventare il lamento del silenzio, continua la sua alternanza tra la musica punk, il sottofondo della radio statale di propaganda e più raramente di Radio Free Europe.
Come Randal McMurphy, per sfuggire all’arresto e qui alle accuse di istigazione contro il regime e propaganda, il protagonista ha come unica via prendere quella che viene definita dal medico che lo interroga una «vacanza psichiatrica» nel reparto aperto. La scena è costruita su un incrocio di 4 personaggi, da una parte del tavolo i due in procinto di essere internati, Frank e il suo futuro e un po’ ammaccato alter ego femminile che rispondono alle domande, e dall’altra quelli che le pongono dall’alto dei loro camici bianchi. Sono domande assurde, come «cosa farebbe se andasse a fuoco il teatro», «il primo ricordo di quando urlava», «Si è mai sentito osservato» oppure «Quand’è l’ultima volta che ha parlato», poste sottovoce dai due colleghi ai rispettivi pazienti in un gioco di sguardi accavallati che fa intuire di un legame tra le due parti opposte del tavolo. Frank è infatti sentimentalmente legato alla dottoressa che in questo momento sta interpellando con insistenza la ragazza. Una sorta di good cop in questo gioco, dal momento che anche la giovane è parte dello stesso gruppo di dissidenti e che, falsificando alcune pratiche, ha «aiutato» il ragazzo con lo stratagemma di fingersi mentalmente instabile per scegliere rispetto alla prigione un soggiorno più o meno libero in manicomio. Non per tutti questa è una scelta. A «riprendersi dallo stress» ci saranno molti altri come lui, dallo scrittore internato sempre nel periodo delle feste di Stato al sociologo «pacifista, omosessuale, artista, scrittore».
Da questo momento il cantante sarà testimone della parata di chi è «pazzo» davvero, chi lo è diventato per le bugie e chi finge di esserlo, risalendo lui stesso questa spirale al contrario nell’arco del film. Vedrà sfumare il confine tra “normalità” e follia, tra nemici e amici (ma mai tra giusto e sbagliato, o almeno non in prima persona), così come sfuma la città, sempre più sbiadita come appare durante le sue uscite, che sia alle feste/raduni clandestini in appartamenti bohemien fumosi di sigarette, musica e rabbia, o tra le strade di un luogo che di fatto si sta cancellando anch’esso a dispetto di volti ancora nitidi e chiari anche se spesso mostrati di spalle. Il pubblico deve sudare la faccia del protagonista, e quando questa si staglia, luminosa nel grigio, ringrazia di avere atteso. La regia è sempre disorientante, mentre lui entra ed esce da un ospedale in realtà strettamente collegato con l’esterno e con la vita che continua, un esterno e una vita a cui Frank ha ancora libero accesso ma che di fatto cerca di abbandonare, convinto dalla ragazza a lasciare tutto per fuggire a New York e salvarsi. Allo stringersi del pugno di ferro del governo, però, corrisponde un radicalizzarsi della missione di Frank, che continua a cantare di nascosto e a «istigare i giovani» con i suoi «testi barbari», come secondo l’accusa mossagli. Il suo talento però è riconosciuto: «c’è una forza dentro di lei, peccato che la stia usando per distruggere». Gli si offre tutto quello che vuole, persino un trampolino per la carriera nel più importante studio di registrazione statale, purché trasformi la sua potenza da distruttrice in creatrice (distruttrice di uomini e creatrice quindi di altre pedine anonime), purché smetta di «confondere» il suo pubblico e pieghi insomma se stesso al regime attraverso la sua unica forma di espressione al mondo. Infatti «le melodie vanno bene, servono testi nuovi», e d’altronde «non può pensare di fermare il regime più progressivo del mondo». Ma neanche si può pensare di fermare chi agogna la forma di libertà più innegabile che ci sia, quella di pensiero e dunque di espressione, o di espressione e dunque di pensiero – funziona in ogni modo. Il cogito ergo sum, in questo film fatto di punk e silenzi ma che è un film sul valore della parola come lotta e affermazione di sé stessi di fronte al potere, diventa infatti loquor ergo sum. È qui la parola, e soprattutto quella diversa e libera, a rendere ognuno individuo e individuale.
Il sangue dell’ultimo pestaggio subito scorre annacquato nel lavandino, come rischia di scivolare via l’identità del protagonista che lo perde: sempre più diluita e infine perduta, svanita del tutto, giù per un tubo. Ma il sangue «finto», idealmente la vernice rossa delle bombolette spray spruzzata sui muri degli ospedali, cola invece denso e vivo come a significare che forse non importa cosa si dovrà sopportare, la resistenza sarà indelebile, come ancora lo sono gli anticorpi contro il regime e la sua per così dire operazione tritatutto. Niente deve esistere singolarmente, meglio una poltiglia di menti (quando non direttamente di carni), perché tante singolarità sono una minaccia. D’altronde è all’omologazione che si punta, anche apparente, come testimonia la assoluta corrispondenza estetica tra Frank e l’altra paziente dell’interrogatorio iniziale, rasata e muta (forse il regime su di lei ha già vinto?), «ospite» del reparto chiuso senza libera uscita. E se la brutalità dell’operazione è, come detto, direttamente proporzionale a quella della risposta di Frank, con il viso ancora incrostato di rosso quasi a disegnare un sorriso beffardo questi decide di muoversi per cercare di far girare le registrazioni delle sue canzoni al di fuori. Ma soprattutto decide di rimanere e non partire insieme all’amante, perché «serve un pazzo per fermare quelli (cosiddetti ndr) normali». Infatti pazza, nobile e masochista è la sua scelta, etichettata dalla donna abbandonata come frutto di una ipotetica «sindrome maniacale» secondo quella logica di oppressione per cui chi è in disaccordo è malato, al punto da proporre con insulto una puntura di calmante. La giovane dottoressa si connota dunque in qualche modo come simbolo della zona grigia che ogni dispotismo si trascina intorno come un alone che non lascia scampo, lo stesso alone in cui rischia di essere invischiato anche Frank. Lo sarebbe qualora accettasse di piegarsi alle «offerte» governative e mettesse a disposizione la sua voce, una voce certamente contraffatta, per lo meno nei messaggi. Sceglierà di rimanere, di non tacere le sue provocazioni neanche sui tram, di cantare ancora e di essere ancora picchiato, perché «anche la musica e politica». Al suo pubblico grida «non chiudete mai il becco, non dovete mai tacere» mentre un lamento elettronico si dirada nella sala concerto di nuovo sgombrata. La camera sta letteralmente addosso a Frank, ed è ugualmente ribelle e agguerrita nel seguirlo mentre compie quelle decisioni che regalano all’opera un messaggio sicuramente edificante, ma che di fatto la depotenziano.
Il film infatti si trasforma in una cronaca di tutto ciò che chi alza la testa di fronte alla dittatura e all’imposizione del pensiero unico deve sopportare. Lo fa in maniera forte, ma arriva un punto in cui la narrazione è di fronte ad un bivio e lo spettatore spera che intraprenda un’altra strada. Il pubblico vorrebbe vedere Frank scegliere di cantare per l’orchestra di Stato, attraversare cioè di sua più o meno spontanea volontà quel varco, entrare nell’alone, vendersi, diventare grigio egli stesso. E in questo senso sì che sarebbe stato davvero erased, letteralmente spezzato via perché cancellato nella maniera più subdola che è quella che annulla la personalità, dunque la persona. Solo così l’opera sarebbe diventata la riprova di quanto sia alto il rischio di essere spezzati dalla verga di un potere che ti vuole muto e ai suoi piedi, allora come oggi e come sempre sarà in questa umanità che non cessa di divorarsi da sola. E la verga è tanto più potente quando più non viene sferzata direttamente sul corpo ma sulla mente, vittima di una mortificazione parallela a quella corporea ma di fatto ancora più bruciante. Quanto più sottile sarebbe stata allora l’indagine sulla coercizione politica, quanto più profonda la riflessione sulla labilità dei confini tra Bene e Male nel mostrarne il ben oleato meccanismo di passaggio tra l’uno, l’altro e le varie zone intermedie? E quanto sarebbe stata più disturbante la domanda che ci si porrebbe: che cosa faremmo noi in quella situazione? È su questo infatti che si basano tutte le dittature: paura, violenza, ma anche retribuzione, vie d’uscita, patti. Quanto ancora più pericoloso e inquietante e semplicissimo sarebbe potuto risultare nella sua rappresentazione il totalitarismo, se il film avesse preso questa strada, e quanto più alta sarebbe potuta essere la vetta raggiunta? Fabricious invece, pur non lasciando andare minimamente la tensione narrativa, sceglie di insistere su un tema che continua a scavare fino all’osso, e certamente non manca di testimoniare quanto detto sopra pur restando una scelta forse meno brillante, che gli si perdona con piacere perché ormai si è perfettamente dentro agli avvenimenti. Dopo aver puntato una pistola contro lo stesso che gli aveva offerto la famigerata occasione di piegarsi per il successo, il giovane subisce un’escalation di maltrattamenti che dall’internamento questa volta forzato nel reparto chiuso lo portano a subire infine un elettroshock, su un corpo ormai denutrito per il rifiuto fiero del cibo. Si entra facilmente nella fame, nella rabbia, nel senso profondo di sconfitta e anche di vittoria, nei suoi momenti di unione con l’altra paziente come lui, nei piedi scalzi su quelle piastrelle fredde d’ospedale.
Con il suo ritmo incalzante e la sua macchina da presa che respira sul viso e sulle spalle degli attori e che non smette anch’essa di ribellarsi e di disorientare chi guarda, Gabor Fabricious costruisce un film in cui si resta invischiati, intrappolati senza possibilità né volontà di fuga, la stessa che il protagonista aveva rifiutato per l’ennesima volta, divorando la lettera con cui la ex compagna insisteva per farlo espatriare. Frank è gradualmente sconfitto e ora accudito dal suo alter-ego femminile. Sarà lei con la sue parole infine ritrovate (gli sussurra «non sei solo, ci sono io») come un ideale trasferimento, passaggio del testimone o meglio di un’arma, ad accoglierlo dopo l’elettroshock. Come la lobotomia nel Nido del Cuculo, l’unico modo per farlo desistere. Prima che venga portato via in barella riecheggia nella sala una frase che non può non ricordare la raccapricciante finta cura di Nurse Ratched : «sta meglio ora». Così avviene la cancellazione di Frank. Che è lentissima, combattuta con le unghie e con i denti fino al punto inesorabile, quello di non ritorno, che agisce sul cervello non più tramite la paura e la propaganda ma ora fisicamente tramite corrente elettrica, perché in fondo «la mente è solo uno dei tanti organi, funziona per tutti ugualmente. In fondo siamo tutti uguali». Ma il corpo di lui rimane. Così lo vediamo nel finale: pulito, ordinato e infiocchettato nel suo smoking, pronto per calpestare di nuovo il palcoscenico ma questa volta come si deve, come da regolamento, perché si ricorda le melodie andavano bene. Frank è ora in piedi sul palco, immobile, accolto da un pubblico in visibilio. La chitarra è di traverso davanti, non è compresa nel primo piano ma si intuisce dalla tracolla, il microfono è acceso e un brulichio di persone in sala non attende altro che la sua voce. Che non uscirà. Dopo una manciata pesantissima di secondi di esitazione, a risuonare dal microfono sarà una balbuzie, un sospiro inarticolato. La parola, epurata e svuotata, che si rifiuta di uscire. Perché in fondo, anche la resistenza passiva è pur sempre resistenza. E se il vero Frank, in fondo, non fosse davvero stato cancellato?
Bianca Montanaro